martedì 29 luglio 2014
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Nel turbinio di crisi, catastrofi e massacri del Medio Oriente, l’attenzione si sposta continuamente da un Paese all’altro e accade di non valutare adeguatamente avvenimenti significativi. Come nel caso delle elezioni libiche del 25 giugno, i cui risultati annunciati in questi giorni sono stati subito oscurati dalla notizia del precipitoso ritiro di molti diplomatici e cittadini occidentali, tra cui tanti italiani. Per quanto la presenza di moltissimi candidati indipendenti (circa 80 su 200 seggi) renda complessa la lettura dei dati, i gruppi laici (i "liberali", anche se il termine è un po’ generoso) sembrano essere i veri vincitori di queste consultazioni, mentre i partiti islamisti hanno ottenuto molto meno di quanto avevano sperato. Un significativo cambiamento rispetto alla situazione del precedente Congresso Nazionale Generale (Cng), come viene chiamato il Parlamento libico, che era invece dominato da un variegato insieme di forze vicine al radicalismo musulmano. Su queste elezioni in molti – dentro e fuori la Libia – hanno scommesso, per arrestare uno scivolamento progressivo verso la totale anarchia e la paralisi politica e amministrativa del Paese. L’Italia, va detto, ha giocato un ruolo importantissimo nei mesi scorsi per favorire un dialogo di riconciliazione nazionale che doveva necessariamente passare per nuove elezioni, vista la paralisi totale di un Parlamento che aveva esaurito il proprio mandato. Nel tentativo di ridurre la crescente spaccatura fra la capitale Tripoli e una Cirenaica sempre più attratta dalle tentazioni indipendentiste, si era anche deciso di trasferire la sede del nuovo Parlamento a Bengasi; un gesto significativo per avviare quel processo di decentramento e riequilibrio fra le regioni libiche di cui si è tanto parlato in questi anni, ma che era sempre rimasto lettera morta. Come talora accade, tuttavia, idee che sembrano ottime sulla carta, una volta applicate – se non si considera il contesto generale – possono produrre risultati controproducenti. Perché tutta la Libia è nel frattempo precipitata in una spirale di violenza e di scontri fra contrapposte milizie, dinanzi alla quale il governo transitorio e le debolissime forze armate nazionali appaiono impotenti. Da giorni le milizie di Zintan (legate ai movimenti laici) e quelle di Misurata (vicinissime ai gruppi islamisti) si combattono attorno all’aeroporto di Tripoli portando alla paralisi di assistenza e ricostruzione sostenute dalla comunità internazionale. Ma mentre a Tripoli la situazione di sicurezza – per quanto deteriorata – è in qualche modo ancora controllata dal potere centrale, a Bengasi le milizie "federaliste" e islamiste spadroneggiano, per tacere della presenza di diversi gruppi jihadisti: spostare laggiù il Parlamento, in questa situazione, sembra servire solo a rendere i deputati ostaggi dei miliziani. E dato che nella nuova Assemblea legislativa i partiti islamisti sono minoritari, in molti temono che si assisterà a un aumento delle pressioni e delle violenze per cercare di condizionarla, nel caso si formi un governo giudicato a loro ostile. In una situazione di così evidente caos, l’unica strada possibile sembra quella di un governo di unità nazionale, che includa le principali forze politiche, e che stabilisca un percorso – una road map – di riforme e di punti d’azione. Ma senza un più deciso aiuto dall’esterno, le possibilità che i libici riescano da soli a uscire dal disastro in cui si sono cacciati sembrano minime. Un maggiore attivismo da parte della comunità internazionale, a lungo esitante e ostacolata da meschine rivalità di interessi nazionali, sembra inevitabile. Finora il dispiegamento di truppe straniere in Libia con compiti di peace-keeping, cioè con compiti di stabilizzazione e mantenimento della pace, è stato un tabù per i partiti politici libici e un tema di cui nessuno all’Onu voleva parlare. Ma per quanto controvoglia, se non si riuscirà a fermare l’accelerazione delle violenze e degli scontri, bisognerà riflettere su questo tipo di opzione. Senza aspettare che tutto precipiti, costretti poi a gestire in affanno l’ennesima emergenza mediterranea.
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