venerdì 18 luglio 2014
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​Di notte tutti i gatti sembrano neri. Tanto più se le notti sono squassate dalle sirene degli allarmi e dai bombardamenti. Ma la realtà delle cose è sempre più complicata di così, soprattutto se si sta parlando di Medio Oriente e del conflitto israelo-palestinese. Le etichette rozze che eliminano differenze e distinguo qui servono a pochissimo. O meglio, servono forse a chi le usa come propaganda politica, ma impediscono di capire la situazione e, cosa ancor più grave, di trovare soluzioni credibili al conflitto in corso. Limitarsi allora ad affermare, come fa il governo del primo ministro israeliano, Bibi Netanyahu, che Hamas è solo un gruppo terroristico a cui va negata ogni legittimità internazionale e che le operazioni mirano a eliminare la minaccia dei terroristi significa usare una "etichetta fatale", come è stata definita, che non aiuta la comprensione.
Perché se è vero che Hamas ha usato e usa cinicamente la violenza e il terrorismo, è vero anche che questo gruppo è molto di più, essendo un movimento politico e assistenziale, chiaramente ispirato ai Fratelli Musulmani, che si è radicato profondamente nella società palestinese offrendo sostegno alla popolazione e presentandosi come un gruppo alternativo alla corrotta dirigenza "moderata" di al-Fatah. Sono queste le ragioni alla base della vittoria elettorale del 2006, che portò alla guerra civile fra le due fazioni palestinesi e alla presa di controllo di Gaza da parte del movimento islamista. La decisione di non stimolare l’evoluzione politica di Hamas, con il rifiuto sostanziale dell’Occidente di riconoscere il suo governo nella Striscia, appare oggi come un errore, dato che si è spinto quel movimento a un’ulteriore radicalizzazione, lasciandolo in compagnia degli aiuti interessati di Iran e Siria, e offrendo una comoda giustificazione per i suoi evidenti errori e gli insuccessi nella gestione politica e amministrativa.
Dal successo elettorale di otto anni fa sono cambiate molte cose. I leader del movimento hanno fatto i conti con la repressione israeliana, che ha spesso scombinato i vertici del movimento, ma soprattutto con una gestione amministrativa deludente, che ha alienato parte del consenso popolare. Le terribili condizioni di vita imposte dall’isolamento della Striscia, voluto da Israele e dall’Egitto di Mubarak, hanno favorito la nascita di movimenti di natura jihadista e qaedista, più estremiste di Hamas. Dopo i bombardamenti israeliani del 2008-2009 nella Striscia, che causarono immani devastazioni e almeno 1.500 morti fra i palestinesi, Hamas dovette fronteggiare la crescita di formazioni ispirate ad al-Qaeda come Jund Ansar-Allah e di Jihad islamica. Quella guerra ha portato - non alla distruzione di Hamas come sperato da Israele - ma in un aumento dell’aiuto militare di Teheran, che ha rifornito di missili molto più sofisticati l’arsenale del movimento.Con lo scoppio delle primavere arabe, la dirigenza islamista ha deciso un cambio di linea che si è rilevato catastrofico: forte del sostegno del nuovo Egitto dominato dai Fratelli Musulmani, Hamas rompe con Damasco e Teheran, appoggiando i ribelli siriani e avvicinandosi al Qatar. Il leader all’estero del movimento, Khaled Mashal, abbandona la Siria e firma nell’aprile del 2011 un accordo con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, il rivale Abu Mazen. La mediazione non ha però applicazioni reali e anzi sembra mostrare una divaricazione fra i leader di Hamas residenti a Gaza (in particolare Ismail Haniyya) e quelli all’estero. Per di più la svolta crea una grave frattura (che si cerca ultimamente di ricomporre) con l’Iran, grande finanziatore di Hamas; poco dopo il movimento si ritrova privo anche del sostegno egiziano, dopo che il presidente islamista Morsi viene estromesso dal generale al-Sisi , nemico giurato degli islamisti.
Da qui la crisi finanziaria che ha peggiorato ulteriormente la vita nella Striscia e ha minato il governo islamista, incapace di pagare gli stipendi alle decine di migliaia di dipendenti pubblici. E probabilmente questa debolezza è stata alla base del nuovo recente accordo siglato con Abu Mazen per un governo di consenso nazionale, firmato proprio prima della visita di Papa Francesco in Medio Oriente, a cui Israele ha reagito con grande durezza, rifiutandosi di partecipare a nuovi colloqui di pace. Il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani che è alla base del nuovo conflitto è probabilmente dovuta all’azione di chi - fra i palestinesi - non voleva questo accordo unitario. Ora Hamas appare nell’angolo, indebolita dalla brutale efficienza delle forze armate israeliane.
Tuttavia, l’idea di un suo crollo sembra semplicistica, dato il suo radicamento religioso e sociale nella Striscia. Fra gli stessi analisti israeliani ci si pone la domanda: ma umiliare Hamas giova veramente a Israele? Un suo collasso provocherebbe una situazione ancora peggiore, con il proliferare di gruppi jihadisti e qaedisti sul modello somalo o siriano-iracheno, che ritengono il movimento troppo moderato e che mirano solo alla violenza, senza alcuna attenzione per l’assistenza sociale. E non si tratta solo della Jihad islamica palestinese, movimento ben noto dell’estremismo islamista, che ha perso in questi giorni parte del proprio gruppo dirigente ucciso nei bombardamenti di Israele. Vi sono infatti anche i Comitati di Resistenza Popolare, che hanno all’attivo il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, e i movimenti salafiti come Tawhid wa Jihad e Ansar al-Sunnah, i quali vogliono creare un emirato islamico a Gaza, da cui far partire la riconquista islamista del Medio Oriente per creare un Califfato islamico, secondo la moda del momento. Non mancano perfino i marxisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, anch’essi determinati a distruggere ’l’Entità Sionista" e con nuclei attivi nella Striscia.Ma il pericolo maggiore è forse l’entrata a Gaza dei miliziani qaedisti di ISIS – forti dei recenti successi in Iraq – o di Jabhat al-Nusrat, che si disimpegnerebbero dal fronte siriano attirati dalle violenze degli israeliani. Si tratta di miliziani esperti e rodati da anni di guerra civile che possono creare seri problemi.
Insomma, quand’anche Israele mettesse davvero in ginocchio Hamas – cosa di cui in molti dubitano – chi verrebbe dopo sarebbe probabilmente peggio. Altra conseguenza negativa, fra i sicuri perdenti di questo conflitto vi è il presidente palestinese Abu Mazen, stretto fra la condanna della durezza israeliana e quella delle violenze palestinesi. Più salirà il computo dei morti a Gaza e più difficile sarà per lui parlare di moderazione e fine delle violenze da ambo le parti: ogni giorno in più di guerra è un giorno di perdita di consenso dei moderati. Se con l’accordo di giugno si sperava che Abu Mazen moderasse Hamas, la guerra rischia di produrre l’effetto opposto. E non si riesce a capire a chi possa giovare questo risultato disastroso, se non agli estremisti, i quali – tanto in Israele quanto in Palestina – predicano l’odio e mirano a bruciare tutti i residui ponti fra due popoli condannati a convivere su di un territorio reso troppo piccolo dal fanatismo e dal rifiuto dell’Altro.
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