giovedì 10 settembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
La fine del secondo conflitto mondiale nel 1945 non segnò il termine della sua tragedia di morte, sofferenza e distruzione materiale e morale. La ferita era ancora aperta. Spento il tuono dei cannoni e il rombo degli aerei, più forti si udivano – tra le macerie delle città e la desolazione delle campagne impoverite dalle braccia assenti – i lamenti dei rifugiati, il pianto delle vedove, le grida degli orfani e il silenzio implorante dei senzatetto e dei feriti e malati (40mila vittime belliche, militari e civili, morirono in Italia nei primi anni del dopoguerra). Nella sola Europa il numero di profughi, deportati ed esuli era di 64 milioni. Ai connazionali tornati dai campi di battaglia o di concentramento, dal confino o dallo sfollamento, si aggiungevano rifugiati dagli ex territori del Terzo Reich, dai paesi dell’Est occupati dalle armate sovietiche, dall’Istria e dai Balcani, per molti dei quali l’Italia era una meta temporanea in attesa di imbarcarsi per l’oltreoceano. Con un reddito nazionale medio sceso alla metà di quello del 1938, la produzione industriale civile calata del 70% e quella agricola di quasi il 40%, il costo della vita era aumentato di venti volte rispetto a prima della guerra e la ripresa economica era ancora lontana: per consentirla serviva, tra l’altro, ripristinare 28mila chilometri di linee elettriche abbattute, 42mila di strade rese impraticabili, 7mila di ferrovie danneggiate, 11mila ponti crollati. Anche in un tale frangente, gli italiani residenti non lasciarono mancare agli stranieri, oltre che ai connazionali dispersi che rientravano, quanto potevano offrire col cuore e con le mani, in uno slancio eccezionale di solidarietà che si affiancò all’azione dell’Amministrazione alleata, supplendo alla mancanza di capillarità e alla scarsa attenzione alla dimensione familiare e sociale delle necessità della nostra gente che caratterizzò un intervento umanitario ancora di stampo militare. A quest’opera popolare di soccorso e accoglienza contribuì decisamente la Chiesa con l’iniziativa di vescovi, preti, associazioni cattoliche e singoli fedeli, mettendo a disposizione strutture, risorse materiali e spirituali, energia propulsiva e capacità organizzativa. La Chiesa ha agito in favore dei rifugiati civili e politici ben prima che esistessero organismi internazionali per proteggerli ed assisterli. Pio XII si era già mosso durante la guerra, accogliendo nella villa di Castel Gandolfo e in altri edifici della Santa Sede un elevato numero di profughi giunti nella Capitale (purtroppo sotto i ripetuti bombardamento alleati della residenza estiva e del collegio di Propaganda Fide ne morirono oltre settecento) e creando un’apposita Pontificia commissione con il compito, tra l’altro, di offrire viveri, abbigliamento, alloggio, lavoro e assistenza sanitaria ai profughi. Papa Pacelli rivolse anche un accorato appello ai romani: «Supplichiamo, scongiuriamo quanti posseggono mezzi per venire in aiuto, sia con offerte materiali che col lavoro e con la prestazione dell’opera, di non negare il loro efficace contributo e concorso a così urgente e caritatevole azione» (Discorso, 1944). La risposta del popolo e del clero dell’Urbe non si fece attendere. Nello stesso anno, a Genova, il cardinale gesuita Pietro Boetto coinvolse l’intera diocesi in una rete di ausili materiali e spirituali firmando una lettera pastorale con la quale lanciava una «"crociata della carità" in aiuto di tutti i bisognosi», rivolta in modo particolare ai sacerdoti («Attendiamo la testimonianza di un’attività caritativa senza precedenti, generosa, eroica»), ai fedeli benestanti («Occorrono, non lo nascondiamo, fondi veramente straordinari di mezzi pecuniari, di mobili, vesti, alimenti, medicine») e alle associazioni cattoliche («Mettete a disposizione le vostre sedi, il vostro tempo, l’opera vostra, il vostro cuore»). La catena di solidarietà che ne nacque si estese ad altri territori e consentì una raccolta quasi regolare di aiuti che si rivelarono essenziali, come documenta lo storico Pier Luigi Guiducci, per «garantire la sopravvivenza anche di alto numero di ebrei nel centro-nord dell’Italia». Nell’assistenza agli esuli croati si distinse l’arcivescovo Norberto Perini, che nell’ottobre del 1945 consacrò nella sua diocesi, a Fermo, la chiesa di un campo profughi realizzato dalla Confraternita di San Girolamo. Era una piccola città, con asilo, scuole, teatro e campi sportivi. Un modello esemplare, a detta degli stessi Alleati, considerati i campi per stranieri di Fossoli (Carpi) e di Fraschette (Alatri), tristemente noti per la durezza della disciplina e la scarsa attenzione individuale. Ieri come oggi è la carità che sa trasformare la gestione dell’emergenza in accoglienza della persona.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: