lunedì 17 febbraio 2014
​Ci sono passaggi storici nei quali i popoli avvertono che le cose vecchie sono passate. E inizia una speranza collettiva.
di Luigino Bruni
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Ci sono passaggi storici nei quali i popoli avvertono che le cose vecchie sono passate, che un certo "mondo" sta finendo, ed è struggente il desiderio del nuovo. Il nostro tempo è uno di questi momenti. Certamente per l’Europa, che sta attraversando una grande notte culturale, che prima o poi passerà, ma non sappiamo ancora con quali costi, né con quale esito. Dobbiamo iniziare un "viaggio al termine della notte", che può incominciare solo sulla speranza collettiva che questa notte dovrà sfociare in un’alba. Le solitudini, la tristezza, l’immunità reciproca, l’indifferenza verso i poveri, non possono essere le ultime parole dell’umano, né quelle della nostra generazione. Non lo vogliamo, e non possiamo accettarlo. Mettersi in cammino significa allora non aspettare passivi il nuovo giorno, ma muoversi verso oriente per andare incontro al sole che sorge, e così anticiparne la venuta. Camminare significa lavoro, anche culturale e del pensiero, un lavoro doloroso perché va nella direzione contraria all’ondata di "pensiero" di chi si trova a libro paga di coloro che dalle solitudini, tristezze e immunità di oggi traggono lauti profitti e sempre maggiori rendite.
Questo capitalismo passerà perché nella sua ultima stagione non è stato più capace (e noi con e in esso) di orientare i desideri più forti degli esseri umani verso i beni (cose buone), e si è accontentato delle merci. Ma togliendo dall’orizzonte tutto ciò che non è in vendita, anche i desideri si abbassano al livello delle merci, e così finiamo per desiderare solo ciò che troviamo dentro lo spazio dei mercati. Dire Europa e Occidente è dire umanesimo ebraico-cristiano, nelle sue varie declinazioni, gemmazioni, contaminazioni, malattie, reazioni, ma soprattutto nei suoi copiosi e straordinari frutti di civiltà. Questo umanesimo ha dei precisi codici fondativi. Uno di questi, il più profondo e fecondo, è il grande codice biblico, che dalla Genesi all’Apocalisse ci ha fornito per millenni le parole per dire politica e amore, morte ed economia, speranza e sventura. In un’epoca nella quale le nostre parole sono stanche, non parlano più perché "logore" e ridotte a "soffio di vento" (Qoelet), occorre mettersi in viaggio in ricerca di Parole più grandi di noi e della nostra età. Alcune di queste parole di vita si trovano nella letteratura, nella poesia, nell’arte, e anche nei grandi miti e nelle narrative popolari che ci hanno salvato durante le guerre e le tante carestie, e continuano a farlo.
Ci sono però altre Parole, storie e narrative più grandi e più profonde. Sono quelle bibliche, che hanno nutrito e ispirato la nostra civiltà, che sono state rilette e rivissute da centinaia di generazioni, hanno riempito di sé le nostre opere d’arte più belle, i sogni di bambini e di adulti, che ci hanno fatto sperare durante i tanti esili e schiavitù che abbiamo attraversato, e che attraversiamo. Non ci sono storie di liberazione più grandi di quelle dell’esodo, ferite più fertili di quella di Giacobbe, benedizione più disperata di quella di Isacco, risata più seria di quella di Sarah, contratto più ingiusto di quello di Esaù, obbedienza più salvifica di quella di Noè, peccato più vigliacco di quello di Davide contro Uria l’ittita, sventura più radicale di quella di Giobbe, pianto più fraterno di quello di Giuseppe, paradosso più grande di quello di Abramo sul monte Moria, grido di parto più lacerante di quello della croce, disobbedienza più amante della vita di quella delle levatrici d’Egitto. E se ci sono, ditemelo - io non li ho ancora incontrati. Sono molte le ragioni che fanno queste narrative e questi racconti "più grandi". Una è la loro radicale ambivalenza, che se accolta e compresa consente di evitare le dicotomie che sono sempre la prima radice di ogni ideologia. Quelle storie ci dicono, ad esempio, che la fraternità-sororità confina sempre con il fratricidio, che sono le due vie che si biforcano nei tanti bivi delle storie delle persone e dei popoli. La bibbia ci invita a porci sui crocicchi dove incrociano queste due strade, e prendere coscienza che entrambe sono sempre possibili, e che la nostra responsabilità sta nel far sì che le ragioni della fraternità prevalgano su quelle del fratricidio.
Tutti i grandi racconti sono soprattutto un dono gratuito di parole che noi non abbiamo, parole-donate per  pregare, pensare, sentire e amare. Quando ci mancano storie e parole grandi, prendiamo le parole in prestito da chiacchiere e fiction, e con questi mattoni piccoli riusciamo a costruire solo casette, catapecchie in attesa di un futuro condono. Con i mattoni della schiavitù d’Egitto si possono invece costruire strade di liberazione. La Bibbia ha sempre ispirato molta letteratura, moltissima arte, qualche volta anche il diritto o la politica. Non l’economia moderna, che tranne rare eccezioni (Genovesi, Wicksteed, Viner e pochi altri), non ha voluto lasciarsi ispirare dal Libro dei libri. La vita economica era stata per troppi secoli "sotto la tutela" dei sacri testi (su credito, interesse …), e appena ha raggiunto la maggiore età ha cercato e voluto la sua libertà, fuggendo via. Ma oggi, dopo qualche secolo, è possibile, e credo necessario, un nuovo dialogo nella libertà e nella reciprocità.
La Parola biblica ha molte parole di vita da dire alla nostra economia, e quindi alla nostra vita. E può dirci cose che non ha ancora detto, perché da troppo tempo nessuno le ha più chiesto di parlare, di parlarci.  Ma se è vero che la lettura della Bibbia può arricchire l’economia, è altrettanto vero che nuove domande "economiche" possono far dire a quei testi cose che non hanno ancora detto. La storia umana è sempre stata un dialogo tra nuove domande e nuove risposte; e se da un lato la Parola ha spinto avanti l’umano, dall’altro e su un piano diverso anche la storia degli uomini ha consentito di comprendere significati sempre nuovi delle scritture (sta anche qui l’enorme dignità della storia). Se la Bibbia tornerà a parlare nelle piazze, nelle imprese, nei mercati, ne avranno grande giovamento questi luoghi dell’umano; ma ne uscirà arricchito anche il testo biblico, che potrà offrire nuove risposte che non aveva ancora dato per mancanza di domande. Senza il nutrimento delle piazze e dei mercati, senza l’humus del quotidiano e la fatica del travaglio, il grande Libro non diventa anche l’albero della vita.
Con queste premesse e con un forte senso di responsabilità intellettuale, etica e civile, domenica prossima inizierò – non senza trepidazione, ma con grande entusiasmo – un commento di alcuni libri biblici. Il primo sarà il libro della Genesi, la cui ricchezza ci farà sostare per diverse settimane sulle sue straordinarie "storie". Cercherò di far dire anche parole economiche e civili contemporanee a quegli antichi testi, rivolgendo loro domande, ma le domande più interessanti e oggi necessarie saranno quelle che quei testi faranno a noi. Buona parte della sfida consisterà nel non cercare di attualizzare quelle antiche pagine, ma di farci noi loro contemporanei. E le leggeremo insieme ai millenni di storia, in compagnia dei tanti, credenti e non, che hanno dialogato con la Bibbia, che arricchendola hanno arricchito il mondo. La Passione di Matteo è più luminosa dopo Back, Giacobbe è migliore dopo Rembrandt, Giuseppe è più bello dopo Thomas Mann. Se così non fosse la storia sarebbe un inutile sfondo di una rappresentazione teatrale di un copione già tutto scritto, o quei lontani libri non sarebbero più vivi.Se vogliamo salvarci dobbiamo imitare le levatrici d’Egitto: non obbedire ai comandi omicidi dei nuovi faraoni, e salvare i bambini. E avremo ancora una terra. l.bruni@lumsa.it
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