mercoledì 1 luglio 2015
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L'amore vince, Love wins (variante impoverita del virgiliano Omnia vincit Amor): con questo slogan, povero giuridicamente, ma emotivamente potente, è stata trionfalmente commentata da migliaia e migliaia di persone la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che ha definitivamente riconosciuto il diritto degli omosessuali, intenzionati a sposarsi, a essere legalmente riconosciuti come coniugi in tutti gli Stati dell’Unione. Love wins: chi può negare che due gay possano davvero e sinceramente amarsi? La questione del matrimonio omosessuale sembra quindi ormai definitivamente risolta. Il cuore (mai termine più pregnante) della questione non è però questo, ma un altro: è se due omosessuali possano o no amarsi davvero coniugalmente. L’amore, infatti, ha mille aspetti e non tutti questi aspetti (anche se nobili e purissimi) possono essere declinati nelle forme della coniugalità: l’amore genitoriale e quello filiale, l’amore – a volte precocissimo – degli adolescenti (Romeo e Giulietta), l’amore dongiovannesco, l’amore fraterno, quello amicale, l’amore di gruppo (che tanto andava di moda nel Sessantotto), l’amore che non può per varie patologie essere consumato fisicamente, l’amore mistico… per gli occidentali rientra in questa impossibilità di giuridicizzazione coniugale anche l’amore poligamico, che pure ha avuto e continua ad avere un suo spazio nella storia.Eppure tutte queste evidenze, comunque le argomentiamo, sembrano impotenti davanti alla formulettaLove wins, che perfino il presidente Obama ha fatto sua, affascinato da come essa si presenta, così semplice e così innocua (almeno in apparenza). È evidente che lo slogan non basta a giustificare la giuridicizzazione dell’amore, che ha un senso solo quando sia intrinsecamente generazionale; ma dovrebbe apparire altresì evidente a tutti che ciò che può smascherare il suo intrinseco vuoto giuridico, cioè il radicamento dell’amore coniugale nella generatività, è ormai imploso, almeno nell’Occidente. Come spiegare questa inarrestabile erosione dell’autentica generatività giuridica? È un fatto che non da ora, ma da decenni e decenni il diritto ha tradito il suo fondamentale compito di custode dell’unico coniugio generazionalmente naturale, quello tra uomo e donna: prima attraverso l’istituzionalizzazione del divorzio (che ha svalutato il diritto dei figli al perdurare dell’unione dei loro genitori), poi con la progressiva banalizzazione procedurale di questo (arrivata ai suoi limiti con il "divorzio breve" e col divorzio senza controllo giurisdizionale), quindi con la trasformazione dell’adozione da genitorialità legale, e perciò fittizia (ancorché, in moltissimi casi, più che ammirevole e, in non pochi altri, persino eroica ) in genitorialità concorrente con quella naturale (secondo l’infelice slogan: i figli sono di chi li ama, non di chi li genera). Si aggiungano le pratiche di fecondazione assistita, che hanno dato la stura a nuove e inquietanti figure (le madri "portatrici", i padri "sociali", ecc.) che hanno ridotto la generatività a pratica clinica, indifferente ai vincoli della coniugalità. La pretesa di equiparare il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale non allarga affatto (come molti ingenui credono) l’orizzonte della coniugalità, ma è solo l’ultima tappa di un percorso di degiuridicizzazione del matrimonio, che – credo – ci riserverà ancora diverse sorprese.Possiamo continuare a dire di no al matrimonio gay? Certamente: possiamo e dobbiamo. A condizione però di non illuderci. Questo "no" può essere proposto in diverse varianti, da quelle più radicali, che al "no" alle "convivenze registrate" uniscono il "no" a qualsiasi forma di adozione al di fuori del matrimonio eterosessuale, a quelle più accomodanti, che accettano il "sì" alla legalizzazione delle convivenze, a condizione che la loro differenza legale rispetto al matrimonio sia tale da non far sorgere equivoci e che l’adozione sia eventualmente concessa solo a favore del figlio biologico di uno dei partner conviventi. Comunque, però, si formuli questo "no", esso è destinato a essere interpretato in modo sprezzante: nel caso migliore come un ottuso misoneismo, cioè come una riprovevole e ingiustificata paura per i cambiamenti legali resi necessari dal progresso sociale e nel caso peggiore come una crudele e arrogante negazione del "primato dell’amore". Che questo primato abbia oggi come icona quella di una coppia gay e non più quella di una coppia uomo/donna, circondata dai loro figli, non può essere paranoicamente addebitato alle subdole manovre delle lobby politiche gay: se tali manovre, che indubbiamente esistono, hanno avuto un simile successo è perché per troppo tempo (verrebbe da dire: per troppi secoli) ci siamo abituati a rinchiudere il matrimonio in uno stanco paradigma borghese e a caratterizzare l’amore (autentico!) nelle forme a volte ingenue, ma più spesso – perché non dirlo? – ripugnanti dell’amore romantico: ci siamo cioè abituati a collocare l’amore non dentro, ma fuori dal matrimonio. Ed oggi stiamo pagando a carissimo prezzo tanta cecità.
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