venerdì 9 ottobre 2015
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Più che un’organizzazione, ancora una volta il Comitato di Oslo ha deciso che il Nobel doveva sancire un cambiamento, segnare una situazione di evoluzione verso la pace. Ma ancora una volta - non brillando comunque per “coraggio”, visto che di situazioni estreme di “guerra e pace” il mondo è pieno – hanno però scelto di portare alla luce un lavoro sotterraneo. Un qualcosa di quasi impercettibile che dalla rivolta che ha portato alla fuga di Ben Ali nel 2011 fino ad oggi non è finito sotto i riflettori dei media, non ha prodotto titoli eclatanti sulla stampa internazionale. Che ha prodotto però risultati concreti. Ha evitato la disgregazione di un Paese, come invece avvenuto nella vicina Libia, in buona parte in Egitto e come sta a testimoniare anche la guerra più lunga dei nostri giorni: quella in Siria. Il Premio Nobel per la Pace 2015 è andato al Quartetto per il dialogo nazionale in Tunisia per, recita la motivazione, "il suo decisivo contributo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia alla luce della Rivoluzione dei Gelsomini nel 2011". Quindi alla società civile tunisina con i suoi quattro rappresentanti: il sindacato generale dei lavoratori Ugtt, il sindacato patronale Utica, l'Ordine degli avvocati e la Lega Tunisina per i Diritti Umani. Quattro elementi di un dialogo che ha evitato accelerazioni, cercato di temperare le spinte fondamentaliste ma non certo ha potuto evitare che il “laboratorio tunisino” divenisse bersaglio (facile) dello Stato islamico e della sua negazione di derive moderate della concezione dell’islam. Così è stato per il sanguinoso attacco al museo del Bardo a Tunisi (18 marzo 2015) o per il massacro dei turisti stranieri a Sousse il 26 giugno scorso. Una forte “resistenza civile” ha però rifiutato l’omologazione a questi atti, ha negato il consenso che forse gli strateghi di morte speravano di trovare. Non negando comunque il fatto che la Tunisia resta il Paese a maggioranza islamica che fornisce più “foreign fighter” al Califfato. Testimoniando però la certezza di essere la nazione del Nordafrica che più di altre ha trovato (e sta continuando a sperimentare per farlo), una terza via alla stagione venuta dopo le Primavere arabe.    
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