mercoledì 24 ottobre 2012
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Non vi sono dubbi che una valutazione compiuta su una sentenza possa essere espressa solo dopo averne letta la motivazione e sarà forse vero che ogni sentenza deve essere rispettata. Ma le prospettive aperte dalla decisione con cui alcuni componenti della Commissione grandi rischi sono stati condannati per omicidio colposo per non aver adeguatamente informato la popolazione dell’Aquila dell’imminente terremoto di due anni fa sono talmente gravi da imporre alcune osservazioni qui e ora. È in gioco, infatti, lo Stato di diritto nel nostro Paese, e il "posto" della magistratura nell’ordinamento costituzionale. Dalla decisione (dal suo semplice dispositivo) emergono infatti alcuni fattori per nulla isolati nella vita della giurisdizione in Italia. Il primo riguarda la dilatazione senza limiti della sfera della giustizia penale, che assorbe qualsiasi altro tipo di controllo. Se anche si ammettesse che i membri della Commissione grandi rischi siano responsabili di qualche forma di negligenza, la giustizia penale dovrebbe comunque essere l'extrema ratio, e una cautela particolare si dovrebbe osservare prima di ricondurre un comportamento umano ad una ipotesi di reato così grave come l’omicidio colposo. Non vi è certo bisogno di essere adepti delle ideologie del «diritto penale minimo» per diffidare della criminalizzazione (in forma così grave) di ogni comportamento. Il secondo rilievo concerne la nozione stessa di responsabilità, la quale, anche in sede civile, ha ormai un’estensione proteiforme: in questo contesto nessuno è certo che un qualsiasi suo comportamento non produca danni a terzi, specie a fronte di professioni (si pensi a quella medica) intrinsecamente connesse a possibili effetti dannosi di azioni od omissioni umane. Della portata imprevedibile di queste concezioni della responsabilità sono ben consapevoli, del resto, gli stessi magistrati, i quali lottano all’ultimo sangue – attraverso le loro associazioni – per sfuggire, come categoria, agli effetti del mostro che hanno contribuito a creare (si veda la polemica sulla responsabilità civile dei giudici, che ha una storia di ormai un quarto di secolo, incluso un referendum abrogativo, i cui effetti sono stati prontamente disattesi). Un terzo spunto di riflessione viene da una concezione della giustizia penale che mette al centro le vittime, invece della funzione statale di repressione oggettiva dei reati. Si tratta di una tendenza molto forte a livello internazionale, che dà risposta a domande di sicuro pregio (evitare, anzitutto, che il processo penale si converta in una ulteriore umiliazione per chi ha già sofferto). Ma questa tendenza rischia di condurre all’abbandono di uno dei postulati fondamentali del processo penale, vale a dire la sottrazione ai privati del diritto di farsi giustizia da sé, avvicinando pericolosamente il processo penale a quello civile, con il pm e il giudice che, anziché reprimere le violazioni della legge penale, si sentono obbligati a "dare giustizia" alle vittime: una giustizia cui non mancano, talora, elementi di vendetta, più o meno primitiva. Questa miscela diventa esplosiva quando il giudice e il pubblico ministero cercano – consapevolmente o meno – una sponda nell’opinione pubblica, a fronte di "casi difficili". È forse avvenuto nel caso dell’Aquila, ma anche in altri, pure essi assai problematici, come quello della Thyssen-Krupp di Torino, nel quale si è assistito a un altro scivolamento (ben diverso da quello di oggi), dall’omicidio colposo a quello doloso (sia pure con il cosiddetto dolo eventuale). Il quadro che ne risulta è assai inquietante: quello dello "Stato di giustizia" (menzionato, fra gli ordinamenti contemporanei, solo dall’articolo 2 della Costituzione del Venezuela di Chavez) che sostituisce lo Stato di diritto, e nel quale giudice e pm (da noi non adeguatamente separati, come è noto, con tutti i deficit di garanzia che ne conseguono) utilizzano il processo come arena in cui applicare non i tradizionali meccanismi dello Stato di diritto (con al centro i valori di legalità, prevedibilità, stretta causalità, responsabilità personale, ecc.), ma le loro concezioni personali della giustizia, in raccordo con le aspettative di un determinato ambiente sociale. Ne risulta solo una apparenza di giustizia, che appaga forse qualche anima bella, ma che distrugge i fondamenti dell’ordine civile di una società libera e si avvicina pericolosamente a una caccia alle streghe. Alla radice di questa situazione sta, del resto, una sopravvalutazione del ruolo del giudice, che viene chiamato a dare risposta a ogni genere di bisogno umano, per quanto irrazionale (anche se magari comprensibile), piuttosto che ad applicare il diritto di uno Stato libero.
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