domenica 12 maggio 2013
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C’è un vizio che si sta insinuando an­che nel nostro tempo di crisi, e che rischia di diventare una vera e propria ma­­lattia sociale. È l’accidia, una forma di ma­lattia del carattere, dello spirito e della vo­lontà. Nonostante la sua evidente perva­sività, di accidia oggi si parla troppo po­co, la si considera una parola arcaica e de­sueta, e i pochi che ancora ne compren­dono il significato fanno fatica a consi­derarla un vizio. Per quali ragioni, infatti, dovremmo considerare un vizio lo sco­raggiamento, la tristezza o la noia?I fon­datori dell’ ethos dell’Occidente, dai greci ai filosofi medioevali, pensavano invece concordi che l’accidia fosse un grande vi­zio, cioè un vizio capitale, perché è all’o­rigine (capostipite) di altre forme deriva­te di disordini o di malattie del vivere, qua­li la pigrizia, l’incostanza, l’incuria (che è la prima etimologia dell’accidia), la man­canza di senso della vita, la rassegnazio­ne e le depressioni, a volte anche quelle cliniche. Per capirlo occorre tornare a quelle civiltà, e ricordare che per quell’u­manesimo l’accidia minacciava non solo il bene del singolo, ma, come ogni vizio, anche il bene comune e la pubblica feli­cità, che sono il frutto dell’azione di per­sone dedite e impegnate.La vita buona è vita attiva, è compito, dinamismo, impe­gno civile, politico, economico, lavorati­vo. Per questa ragione quando nel corpo sociale si insinua il virus dell’accidia, oc­corre combatterlo, respingerlo, espeller­lo, per non morire. Il vizio, come la virtù, è prima di tutto u­na categoria civile: le virtù sono buone strade per la fioritura umana o felicità, i vizi ci deviano e portano all’appassimen­to della vita. Con i vizi, e senza le virtù, la vita non funziona. Non sono singole a­zioni sbagliate, ma stati morali ed esi­stenziali nei quali si precipita pian piano, e non sempre come scelta intenzionale, compiuta dalla persona nella consape­volezza della strada che stava imboccan­do (anche per questo il vizio non coinci­de con il peccato). Il vizio, poi, è anche un piacere sbagliato e piccolo, che impedi­sce di raggiungere quello buono e gran­de legato all’uso corretto (virtuoso) del corpo e dello spirito, dei singoli e delle co­munità. È l’accontentarsi delle ghiande dei porci e perdere i cibi della tavola di ca­sa. Questa ricerca di un piacere piccolo e sba­gliato si ritrova anche nell’accidia, seb­bene possa apparirci meno evidente ri­spetto alla gola, all’avarizia o alla lussuria. L’accidia arriva in seguito a traumi, crisi, delusioni, lutti, fallimenti, a ferite. Invece di mettercela tutta per riprendersi e rial­zarsi, ci si crogiola nel proprio male, ci si commisera, ci si lecca le ferite. In questo crogiolamento accidioso si riesce a pro­vare anche una certa consolazione e per­sino una forma di piacere, un dolce nau­fragar che fa sopravvivere – ma non vive­re – dopo la crisi. Oggi la nostra civiltà dei consumi ci offre molte merci che ci ren­dono più piacevole la coltivazione del­l’accidia (pensiamo, ancora, alla tv), am­plificando le sue trappole. Questo piace­re accidioso è però un piacere sbagliato, miope e molto piccolo, perché non è la passività narcisistica dell’accidia la giu­sta elaborazione dei nostri fallimenti, ma, ce lo ricorda la saggezza antica, la vita at­tiva, l’uscir fuori di casa, il mettersi in cam­mino con sollecitudine... P er questo una malattia attuale, anche questa endemica e sociale, che assomiglia molto all’antica accidia, è il narcisismo. L’accidia è quindi un grande vizio, perché quando prende piede ci porta a stare male e a vivere male, e se non curata porta a delle vere morti spirituali di persone – ce ne sono tante oggi, se sappiamo vederle, nel mondo dell’impresa e del lavoro –, che dopo una grossa crisi rinunciano a vivere e a far vivere chi è loro accanto, proprio perché incapaci di ricominciare a vivere e far vivere. Che cosa sia l’accidia, o la melancolia, ce lo dice con la forza tipica della grande arte la misteriosa incisione di Dürer, dove la melancolia (sinonimo, in quel tempo, di accidia e tristezza) è rappresentata da un piccolo essere mostruoso che impedisce all’autore di usare i suoi strumenti di lavoro, che giacciono per terra abbandonati. E sullo sfondo un cielo stellato. Lavoro e stelle, due elementi che durante i tempi dominati dall’accidia cadono assieme. Come negli anni quando fu creato questo capolavoro, che sono quelli del Principe di Machiavelli, del tramonto dell’umanesimo civile, di guerre civili in Italia e di lotte di religione in Europa. E quindi dell’accidia che accompagnava quei tempi di crisi, e accompagna i nostri. Come per tutti i vizi, la cura più efficace è individuare i primi sintomi e bloccare subito il processo veloce e cumulativo. Non chiudere i processi, lasciare i lavori a metà, non rileggere l’ultima bozza di un articolo, provare tedio per il lavoro ben fatto, ripetere spesso a se stesso: 'Ma chi me lo fare?', 'Non ne vale la pena'. Sono, questi, i primi sintomi di accidia incipiente. L’antica saggezza dell’etica delle virtù e dei vizi ci suggerisce che quando avvertiamo i primi segnali, dobbiamo reagire subito e «senza indugio» – il vizio consiste nell’assenza di questa reazione decisa, non nel sentire i sintomi. 'Mi alzerò e andrò da mio padre': è questa la risposta virtuosa all’accidia a cui basterebbero le ghiande. Nell’incisione di Dürer insieme agli strumenti del lavoro abbandonati c’è anche il cielo stellato, ma quell’uomo melanconico guarda da un’altra parte. La crisi è devastante quando ci spegne nell’anima i desideri. Il desiderio ha bisogno delle crisi, perché nasce proprio dall’assenza e dalla caduta delle stelle ( de-sidera, cioè mancanza di stelle) e dalla voglia di ritrovarle. Chi cade nell’accidia si accontenta di un cielo abbuiato, non vuol più riveder le stelle. E troppo spesso questo triste accontentarsi dipende dalle solitudini, dalla mancanza della compagnia di qualcuno che sa stare accanto, e che sa portare a riveder le stelle. Da questa crisi, troppo seria per appaltarla alle sole scelte economiche e finanziarie, usciremo trasformando rassegnazioni, abbattimenti e accidie di molti cittadini e di intere nazioni in nuovi progetti politici e in un nuovo entusiasmo civile, riaggregando solitudini in destini sociali comuni, passioni tristi e sterili in passioni liete e generative, vizi in virtù civili. Ce la faremo? ​​​​
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