mercoledì 14 agosto 2013
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Due ricercatori britannici della Lancaster University, Aneta Stefanoska e Peter McClintock, annunciano un metodo per stabilire quanto resti da vivere a un uomo: uno strumento grande quanto un orologio da polso analizza, con un impulso laser, le cellule endoteliali, che pavimentano la superficie interna dei vasi sanguigni, e dalla risposta si ricavano indicazioni sul tempo di vita rimanente. I particolari tecnici non sono stati rivelati e tutto sommato non interessano se si vuole fare qualche riflessione di carattere generale.Un libro di Catherine Mayer, Amortality. The Pleasures and Perils of Living Agelessly, illustra l’atteggiamento che molti hanno assunto nei confronti della vecchiaia e della morte. Gli "amortali" non parlano più di vecchi o di anziani, bensì di maturi e di adulti, e hanno anche espunto la morte dal loro orizzonte. Non potendo sconfiggerla, la rimuovono e la respingono sotto il profilo psicologico e culturale, cullandosi in un sogno, ma anche in una pratica di vita, senza età, in cui abbigliamento, aspetto fisico, relazioni sociali e sessuali tendono ad essere uniformi su tutto l’arco della vita. Questa ostinazione, sottende il desiderio (o l’illusione) di passare dall’amortalità all’immortalità, nascondendo la morte dietro un eterno presente, e amputando la vita del suo esito naturale. Su un altro fronte i futurologi speculano sulla possibilità che qualche forma di post-umano (o trans-umano, alla Nietzsche) vinca tutte le malattie e infine sconfigga anche la morte, attuando uno dei sogni più antichi dell’umanità. Ma la conquista di questo traguardo vertiginoso può trasformarsi in un incubo, come è ben illustrato da Borges nel racconto L’immortale. Inoltre, come dice Umberto Curi nel suo <Via di qua. Imparare a morire, della morte si possono dare due opposte valutazioni: essa è «deprecata perché segna la fine di quel bene supremo che è la vita, o auspicata perché pone termine ai mali di cui la vita stessa è intessuta». Epicuro "dimostrava" come non si debba temere la morte, ma le esortazioni dei filosofi non tolgono a questo evento estremo il suo aculeo velenoso. Tanto è funesto il pensiero della morte che, secondo il mito di Prometeo, il dono più importante del titano agli uomini fu non tanto quello del fuoco e del conseguente sviluppo di tutte le tecniche, quanto l’averli distolti dal guardare fissamente il loro destino mortale, ciò che avrebbe impedito loro di svolgere qualunque attività. Ma questa liberazione degli uomini impone loro nuove catene, sostituendo alla paralizzante contemplazione della morte l’inganno di una vita affrancata dalla prospettiva della fine: falsa speranza. Così la vita diviene un inesausto tentativo di ignorare la morte: in questo tentativo di amortalità i contemporanei si esercitano assidui.Insomma, timore della morte, o sua rimozione o addirittura tentativo di sconfiggerla veleggiando incontro all’immortalità del simbionte ciborganico uomo-macchina. E ora due ricercatori britannici vengono a gridarci un perentorio memento mori, accompagnato dalla certificazione notarile dell’ora. Solo chi è ben saldo nella fede o nella filosofia può rallegrarsi di questa notizia (ma anche le compagnie di assicurazione...). Per tutti gli altri meglio non sapere: ma è un non sapere dietro il quale balugina e traluce il sapere, perché nonostante la bellezza e la giocondità dell’età verde, che appare illimitata, siamo ben consapevoli che «La vita fugge e non s’arresta una hora/ e la morte vien dietro a gran giornate».
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