Quei manifesti e la questione elusa
giovedì 1 settembre 2016

Un’opinione pubblica aperta, cui si ripete a ogni buona occasione che non devono più esistere pregiudizi e fobie dovrebbe trovare quantomeno singolare che d’improvviso gli stessi cantori della libertà e dei diritti si scandalizzino se qualcuno parla di fertilità. I tabù esistono, eccome. Lo dimostra la polemica furibonda scatenata da intellettuali e politici dei più diversi schieramenti attorno alla campagna del Ministero della Salute in vista dell’annunciatissimo (e ora da troppi rinnegatissimo) «Fertility Day» del prossimo 22 settembre, che adesso pare una fissazione del ministro Beatrice Lorenzin e che invece era nato come un’iniziativa del governo per far nascere – se non qualche figlio in più – almeno una prima consapevolezza che un Paese nel quale la fecondità è scesa a 1,35 figli per donna ha il destino segnato. Non solo non è garantito da molto tempo il ricambio tra generazioni – la soglia di 2,1 pare fantascienza – ma lo stesso flusso migratorio non è più sufficiente a evitare che le nascite scendano al di sotto dei decessi, com’è accaduto nel 2015.

L’involuzione demografica alimenta inevitabilmente se stessa, la popolazione invecchia, la società deve occuparsi dei suoi anziani assai più che del proprio futuro, pensioni e sanità diventano un corpo insostenibile per gambe fragili, il dinamismo e la creatività si inceppano... L’elenco delle distorsioni patologiche può allungarsi all’infinito. Tutti problemi noti, che generano fenomeni sui quali classe politica e opinionisti sono unanimi nel sospirare pensosi. Poi però se qualcuno si azzarda a indicare il cuore del problema, apriti cielo: attentato alla libertà di scelta, colpevolizzazione della donna, intrusione dello Stato in faccende privatissime, fondamentalismo religioso, retorica da Ventennio, in un ventaglio di toni che va dallo sfottò pecoreccio all’insulto, passando per l’immancabile intimazione al ministro Lorenzin di dimettersi. È così che un Paese maturo e plurale affronta la questione decisiva sulle sue sorti?

L’argomento più serio di chi critica la campagna ministeriale (sulla qualità comunicativa della quale si può ovviamente discutere) fa perno su questioni come l’incertezza dei contratti di lavoro per i giovani o l’insufficiente dotazione di nidi. Tutto vero, ma che non basti neppure il welfare più solido a incoraggiare la natalità lo dimostra la Germania, evolutissima quanto a tutele eppure allineata all’Italia sulla temperatura gelida delle culle. Contrastare la primissima iniziativa di massa che ha il coraggio di affrontare la rimozione culturale della fertilità e della natalità come valore centrale, pubblico e condiviso del Paese svela l’intento di eludere la questione decisiva: non si fanno figli perché le motivazioni per affrontare ogni difficoltà oggettiva non sono più sufficienti, si è persa la certezza che la procreazione sia un tesoro da proteggere e coltivare, si è fatto credere che basti bussare alla tecnica che però non può indurre ad aprirsi alla vita chi non coglie più questo come un bene in sé. Si tratta di educare, allora, ma in nome di quale valore minimo comune se il solo apparire di qualche manifesto suscita tanta paura?

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