sabato 13 febbraio 2016
La civiltà del pane donato
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Valencia. Presso la riva dello stagno un uomo anziano con un cane forse ancora più anziano passeggiava. Lo vidi avvicinarsi al bordo dell’acqua e cavare dalla sacca delle pagnotte vecchie. Pezzo a pezzo le gettò ai pesci. Restai a guardarlo, affascinato dalla monotonia dei suoi gesti. Non durò poco. Solo alla fine della provvista capii che stavo guardando il verso del capitolo 11 di Kohèlet. "Manda il tuo pane sul volto delle acque". Un uomo anziano nell’autunno del ’93, in una città spagnola eseguiva alla lettera l’invito, dando al verso il suo unico verso.Erri de Luca Racconto su un verso di Kohèlet

«Manda il tuo pane sul volto delle acque, perché in molti giorni lo ritroverai» (Qohelet 11,1). Siamo davanti a uno dei versi più belli e suggestivi del libro di Qohelet. Il suo significato non è semplice, ma la sua ambivalenza – potrebbe anche nascondere tracce di un antico proverbio sui vantaggi e i rischi del commercio via mare – non deve impedirci di prendere sul serio il suo significato primo e immediato (una antica e saggia regola è preferire l’interpretazione più semplice tra i molti possibili di un testo complesso). Un suo senso, infatti, ci si apre quando leggiamo quel primo verso insieme a quelli che lo seguono: «Chi sta a guardia del vento non semina, chi è guardiano di nuvole non raccoglie. (...) Semina la tua semente al mattino, e non ti cada la mano fino a sera. Perché il buon seme non lo conosci: l’uno o l’altro può essere, o ciascuno» (11,4-6). La legge della vita feconda è l’eccedenza, la magnanimità, la generosità. Il grano del pane cresce e ci sfama se seminiamo di più di quanto dovremmo, se andiamo oltre il calcolo d’efficienza, se gettiamo nel terreno più semi dello stretto necessario. La nostra semente non deve essere lanciata soltanto nel terreno buono. Anche i sassi e le spine devono ricevere la loro parte, perché se semino solo dentro i confini stretti del mio buon campo il grano che germoglierà non sarà sufficiente neanche per me. La fertilità del "centuplo" richiede la generosità del seminatore, ha bisogno della sua capacità di "sprecare " una parte della semente , di sublimarsi, di trascendersi.
 
Quando Qohelet scriveva o dettava queste parole, il pane era alimento essenziale e scarso per la quasi totalità della popolazione. Col pane si viveva e si facevano vivere i figli; senza pane si soffriva, si moriva. Gettarlo nell’acqua era dunque un gesto sovversivo, imprudente, curioso, sbagliato per gli osservatori del lanciatore. Ma a Qohelet piacciano i paradossi, ormai lo sappiamo, soprattutto quelli che possono aiutarci a smascherare le vanità e le certezze facili perché auto-illuse. Anche questa volta, l’esegeta migliore di un verso bello e misterioso diventa l’autore stesso, che se lo facciamo "parlare" con tutte le parole del suo libro questa volta ci dice che la prima e immediata lettura di quel testo può essere proprio quella giusta. E così, guardandolo con il grandangolo dell’intero libro, scopriamo che la chiave di lettura dell’incipit di questo penultimo capitolo è ancora la polemica di Qohelet contro la religione economico-retributiva. Nulla è più sovversivo per la logica economica di un pane gettato nell’acqua.
 
Nella sua società, molto più che nella nostra, il pane era un bene speciale, ben più di una merce. Molto raramente veniva acquistato o venduto. Era prodotto comunitariamente, condiviso nei pasti, e soprattutto veniva donato. Un tozzo di pane non si nega a nessuno, né ieri, né oggi, e quando lo facciamo rinneghiamo la nostra dignità. Lo si usava, poi, perché bene prezioso, per i sacrifici, come offerta sacra (Genesi 14, 18). Al di fuori dell’auto-consumo e dei doveri cultuali e di solidarietà, il pane non poteva e non doveva essere sprecato. Quando ero bambino, se a casa cadeva a terra un pezzo di pane e si guastava, prima di darlo agli animali mia mamma me lo faceva baciare. Ogni pane vissuto come dono ricevuto diventa pane eucaristico: è buona gratuità (eu charis), è gratitudine. È manna, è pane di vita. Potremmo riscrivere la Bibbia come storia del pane, tanto è potente ed essenziale la sua presenza.
 
Di certo Qohelet non ci vuole qui invitare a fare col pane sacrifici propiziatori al mare o agli dei acquatici – è stato durissimo anche con i sacrifici a Elohim nel tempio di Gerusalemme: 4,17. Né il pane gettato nell’acqua è quello per i poveri o per il tempio. La sua è invece una sfida alla teologia che giustificava ogni atto umano sulla base dei suoi risultati. A chi donava il pane per essere giusto, e così lucrare la benedizione di Dio: «Chi è generoso sarà benedetto, perché egli dona del suo pane al povero» (Proverbi 22,9). E invece Qohelet ci suggerisce di gettare il pane sul volto dell’acqua, se vogliamo rivederlo tornare in molti modi, molte volte, in molti giorni. La sua è una sapienza dell’eccedenza, del superamento dei confini del ragionevole e della convenienza, sociale e religiosa. Chi ha provato a vivere la vita fino e fondo e veramente, formando una famiglia, mettendo al mondo dei figli, chi ha creato un’impresa o una comunità, o chi le ha ricevute in eredità e non le ha volute far morire, chi ha seguito sinceramente una vocazione..., sa che le cose più belle gli sono tornate quando è stato capace di andare oltre il registro del calcolo utilitaristico, quando ha abbandonato la logica dei costi-benefici e, sconvenientemente, ha fatto ciò che non doveva fare sulla base della sola prudenza e del buon senso. Abbiamo seminato nella stagione sbagliata, abbiamo iniziato navigazioni senza vento buono. Eppure, qualche volta, i frutti sono arrivati, la bonaccia non ha vinto. Almeno una volta. Sappiamo far nascere un bambino solo per amore, dimentichi di ogni nostro vantaggio. Di partire credendo in una terra promessa mentre attraversiamo solo deserti, di ripartire da vecchi credendo ancora in quella terra, quando di deserti, e soltanto deserti, ne abbiamo attraversato molti, troppi. E pur sapendo che quello che ci restava era il nostro ultimo pane, non lo ha abbiamo custodito nella bisaccia, lo abbiamo gettato sulle acque. Sappiamo desiderare che il paradiso esista anche se siamo certi che non sarà per noi.
 
Nella nostra vita ci sono molti atti di gratuità, ma sono quasi sempre parziali, che ci liberano solo da alcune dimensioni della logica retributiva. Siamo troppo impastati di reciprocità per riuscire molte volte ad abbandonare il registro dello scambio. È possibile la gratuità assoluta, l’amore puro? La questione dell’amore puro fu affrontata da una certa teologia qualche secolo fa, quando, in seguito ai dibattiti e alle reazioni alla Riforma protestante, nacque il bisogno di mettere in guardia dai pericoli che nascono dall’estendere all’uomo la capacità di amare di amore puro, che deve restare prerogativa esclusiva di Dio. L’amore puro è pericoloso, è sovversivo. Se però guardiamo bene il mondo ci accorgiamo che gli esseri umani, nonostante tutto, sono capaci anche di amore puro. Non lo siamo quasi mai, ma fa parte del nostro repertorio. E se nella vita non si fa almeno una esperienza di amore puro, dato e ricevuto, l’umanizzazione non si compie in pienezza, ci si ferma troppo presto nel cammino sotto il sole. Un uomo senza amore puro è troppo piccolo. La nostra somiglianza con Elohim deve raggiungere anche il suo amore. Almeno una volta, magari una sola decisiva volta. Fosse anche nell’ultima ora, quando l’ultimo pane che ci verrà chiesto lo potremo anche donare, scegliendo di diventare col nostro corpo eucaristia della terra.
 
La Bibbia – e quindi la vita – è piena di eccedenze che arrivano solo quando usciamo, liberamente o per necessità, dall’orizzonte commerciale. Il figlio che torna a casa solo dopo averlo lasciato andare e perduto, un bambino che nasce da un grembo avvizzito, l’ariete che compare dopo che avevamo impugnato il coltello, i pochi pani che si moltiplicano dopo che li avevamo donati e persi, un profeta che risorge dopo che lo avevamo visto morire in croce. Nessun contratto poteva riportarci in vita il figlio morto, farci generare quando la generatività si era spenta, far  risorgere un crocifisso. Nessun ariete può essere scambiato con un ragazzo, non esiste una borsa dove cinque pani si trasformano in pasto che sfama una folla. Le vere sorprese della vita sono solo quelle che fioriscono liberamente dall’eccedenza, quelle che nessuno poteva prevedere né immaginare, quelle che ci salvano perché immensamente più grandi di noi e delle nostre convenienze. Se avessimo la garanzia o solo la speranza che il pane donato diventerà centuplo, quel pane non sarebbe più la buona gratuità capace di moltiplicarsi. Sarebbe un investimento, un’assicurazione, o una scommessa. Per costruire qui in terra la "civiltà del centuplo", o almeno qualche suo brano, c’è bisogno di reimparare la logica dell’eccedenza e del pane donato alle acque.
 
Sono molti di più i pani che si perdono nelle acque di quelli che ci tornano indietro portati dalla corrente. La straordinarietà del pane moltiplicato dalle acque sta nella certezza di averlo perso per sempre nel momento che lo donavamo. Il valore infinito, e quindi impagabile, del pane donato che torna molte volte in molti giorni, dipende anche dal molto pane che resta sul fondo del mare, e che non torna più a sfamarci. Non tutto il dono donato ci torna; ma ciò che ci appare spreco e dolore può entrare in un’altra economia più grande, quella che include almeno il mare e i suoi pesci. La terra si nutre e vive anche delle nostre lacrime divenute pane (Salmo 42, 4). Il pane centuplicato è l’ultimo pane che ci restava. Non è il pane superfluo, né quello della filantropia dei ricchi. Sono le briciole di Lazzaro che possono tornare moltiplicate, non gli avanzi del ricco epulone: «I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita» (1 Samuele, 2,5). Solo il pane dei poveri può essere "salvato dalle acque", e un giorno ritornare per liberarli dalla loro schiavitù, oltre il mare.
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