giovedì 3 luglio 2014
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Ma quanto tempo è trascorso da quell’incredibile, emozionante pomeriggio nei giardini vaticani? Sono secoli o solo una manciata di settimane, da quando cristiani, ebrei e musulmani si sono ritrovati a pregare per la pace in Medio Oriente? Guardando la Terra Santa di nuovo nel sangue, attoniti dinanzi le bare di tre ragazzi rapiti e uccisi con la sola colpa di essere ebrei e israeliani o davanti al corpo di un giovane palestinese ammazzato per iniziare a pareggiare i conti (e altri cadaveri seguiranno) viene da chiedersi che cosa resta di quel sogno coraggioso e persino temerario di Papa Francesco, di quell’invito a pregare per la pace... Qualcuno di certo si convincerà, una volta di più, dell’inutilità della preghiera nel mondo contemporaneo. E concluderà che, va bene l’utopia, ma insomma pensare di risolvere i problemi geopolitici pregando il Dio di Abramo è troppo anche per un Papa.Non è così. Il sangue, l’odio sparso a piene mani, la rabbia cieca che trasforma gli esseri umani in carnefici crudeli ci dicono che, sì, la strada giusta è proprio quella indicata e offerta da Francesco, che il Medio Oriente non ha futuro senza una trasformazione del cuore, senza la comprensione che l’odio in cambio dell’odio porta a un vicolo cieco e che la logica del taglione non è giustizia, ma solo brutale faida tribale.Il Papa aveva esortato tutti noi a divenire "artigiani della pace", costruendo giorno per giorno un percorso di pacificazione. In queste ore, al contrario, sembrano operare soprattutto dei tetri "signori della guerra", i quali hanno rilanciato le violenze fra israeliani e palestinesi in un momento politico molto particolare. Lo scorso mese di giugno si è infatti formato il nuovo governo dell’Autorità nazionale palestinese, che ha permesso di ricucire il lungo strappo fra le due principali componenti politiche, i moderati di al-Fatah e i radicali di Hamas. Una divisione che aveva portato a scontri fratricidi durati anni e aveva contribuito all’ulteriore indebolimento della rappresentanza politica palestinese e del processo di pace.Con il governo di "consenso nazionale", com’è stato chiamato, la frammentata dirigenza palestinese cerca di chiudere quella ferita e di riproporsi in modo unitario al tavolo delle trattative. Certo, non una scelta facile, dato che la radicalità e l’ambiguità di Hamas possono evidentemente porre dei problemi. Eppure, allo stesso tempo, appaiono evidenti i possibili risvolti positivi, nel senso che questa esperienza potrebbe moderare il pensiero e gli atteggiamenti degli islamisti palestinesi. Il governo israeliano – che, a sua volta, non abbonda certo di moderazione – ha reagito all’inclusione di Hamas con una negatività considerata eccessiva finanche dall’amministrazione Obama. Subito dopo sono arrivati i rapimenti e le uccisioni. Che fanno il gioco di chi, in entrambi gli schieramenti, sparge fanatismo e odio identitario, nel tentativo di bruciare anche gli ultimi, malandati ponti fra i due popoli. Diviene allora cruciale resistere alla logica della vendetta e della ritorsione. Vendetta promessa dal premier israeliano, Bibi Netanyahu, che rischia di infliggere agli abitanti della striscia di Gaza l’ennesimo diluvio di fuoco. E a cui ha subito fatto da controcanto Hamas, che minaccia attacchi indiscriminati contro la popolazione israeliana se dovessero scattare i bombardamenti.Quelle morti chiedono giustizia, certo. Ma non giustizia sommaria. E men che meno faide, condotte con le armi di cui ognuno dispone. Costruire la pace significa al contrario sapersi fare carico del dolore e della rabbia. Andando oltre i semplici ma illusori meccanismi del potere e dello scontro: uccidere tre, cinque o dieci civili israeliani non distruggerà Israele. Né lo farà diventare più sicuro la morte di decine o persino centinaia di palestinesi sotto le bombe. Sono logiche perdenti, come dimostra la storia di questi decenni. Come perdente è brandire il nome di Dio per maledire l’altro, anziché chiedere la forza per capirlo e accettarlo.
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