giovedì 2 gennaio 2014
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Il presidente della Repubblica è il “politico” per eccellenza. Per il ruolo di altissima rappresentanza che riveste, per i doveri che su di lui incombono, per i poteri di garanzia e di indirizzo che è in grado di esercitare, per l’autorevolezza che la carica gli attribuisce (persino a prescindere dai suo meriti e dai suoi demeriti). Giorgio Napolitano nella scorsa notte di San Silvestro, a suggello del primo anno del suo secondo mandato, in quello che è stato il suo messaggio all’Italia e agli italiani forse più impegnativo e più “libero”, ha saputo ricordarcelo con serenità ed efficacia. Non ha fatto finta, come troppi altri attori della scena pubblica, di vivere da spettatore e giudice su una specie di Luna dei “duri e puri” e, perciò, di essere finito quasi per caso nel teatrino della politica nostrana, ma si è caricato sulle spalle e nella voce – infine un po’ arrochita – le attese e le fatiche di tanti e le necessità di una comunità nazionale che ha bisogno come non mai di specchiarsi in uomini e donne delle Istituzioni esemplari e rispettabili.Una lezione di stile politico e istituzionale che tra i cittadini comuni tutti sono in grado di comprendere e apprezzare, anche chi non capisce o non condivide questa o quella parte delle scelte che il capo dello Stato ha compiuto (o accompagnato) negli ultimi otto anni. Una lezione tanto più incisiva e utile nell’ennesimo passaggio delicato ed eccitato della nostra vicenda collettiva che ci tocca di sperimentare, mentre – in modo legittimo eppure assolutamente deludente – vecchi e nuovi capipartito, da Silvio Berlusconi a Beppe Grillo, si mostrano purtroppo più inclini a incendiare polemiche, a scavare trincee contrapposte e ad alzare muri che a costruire un percorso comune di uscita dal guado. I vizi peggiori della cosiddetta Seconda Repubblica tornano, insomma, a riverberarsi sulla faticosa alba della vagheggiata Terza Repubblica, all’insegna di una personalizzazione della battaglia politica che tende a sfociare in un leaderismo risentito e persino ricattatorio e nella trasformazione del “capo” in una specie di incrocio tra un “totem” e l’oracolo di Delfi.Martedì notte, al cospetto di un vastissimo uditorio (giustamente sordo agli sventati appelli alla distrazione deliberata, sufficiente e ostile) Giorgio Napolitano ha saputo rovesciare questo paradigma nefasto e oggettivamente assai poco democratico. Lo ha fatto con estrema semplicità e nettezza, senza ricorrere a effetti speciali. Prima di tutto, il presidente ha scelto di dare grande spazio dentro al suo messaggio di fine anno non solo e non tanto a una propria “lettura” dei nodi che stringono il Paese, quanto soprattutto a voci di persone vere alle prese con veri problemi di lavoro, di pensione, di burocrazia, di tasse. E, poi, ha demitizzato il potere da lui stesso esercitato, riportandolo alla sua natura di «mandato», e di mandato a termine. Perché in una democrazia nessun politico dovrebbe mai pensare che la propria persona è più importante del servizio pro tempore alla comunità civile e allo Stato che gli elettori, il Parlamento, lo stesso partito in cui milita (e che non può e non deve essere ridotto alla livrea o alla coorte di un padre-padrone) lo chiamano a rendere.Grazie al presidente Napolitano, anche per questa testimonianza di stile. Che purtroppo, da tempo, non è più superflua. Che ormai ci è diventata indispensabile. Che al principio di questo anno, 68° di democrazia repubblicana, ci ostiniamo a sperare contagiosa.
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