mercoledì 17 settembre 2014
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​Lo spettacolo della violenza e i venti di guerra che soffiano in tutto il mondo hanno spinto papa Francesco a parlare, in più di una occasione, di una «terza guerra mondiale» strisciante. Una dichiarazione grave, tanto più che il Papa costituisce un punto di riferimento morale che va ben aldilà dei confini della Chiesa cattolica. Per alcuni si tratta di allarmismo fuori luogo; per altri della presa d’atto di una situazione già in essere. In realtà, è evidente l’intenzione di Francesco di risvegliare le coscienze di fronte a un mondo che, alla ricerca di nuovi equilibri, è oggi esposto a rischi molti seri. Soprattutto se commettiamo l’errore di sottovalutare il rischio risorgente del ritorno della violenza e della possibilità della guerra.Quando, nel 1989, cadde il Muro di Berlino, per un momento si sperò finalmente in un’epoca di pace per tutti. In realtà, quell’evento così straordinario chiudeva, nelle sue conseguenze più remote, la seconda guerra mondiale. E con essa il XX secolo. Quando il Muro venne picconato, le basi di un "nuovo ordine" – con il neoliberismo da un lato e la rivoluzione khomeinista dall’altro – erano già state gettate. E tuttavia, tra 1989 e il 2008, nei vent’anni d’oro della globalizzazione, fu possibile illudersi che il futuro avrebbe potuto procedere pacificamente. Almeno fino all’11 settembre 2001, quando l’illusione venne fatta a pezzi.È stata, però, la grande crisi finanziaria del 2008 a cambiare definitivamente il quadro: da quel momento, il mondo è entrato in una nuova fase storica, molto diversa dai vent’anni precedenti. Henry Kissinger, in una recente intervista, lo ha detto con la consueta lucidità: in questo momento, il mondo sfugge all’ordine americano, che pure rimane la principale potenza. Appesantiti da vent’anni di un individualismo consumeristico che ha minato le sue stesse élite, gli Usa non sono oggi in grado di controllare un pianeta divenuto troppo grande. E come sempre accade quando si crea un vuoto di potere, ecco verificarsi le condizioni più adatte al diffondersi della violenza e al ritorno di ciò che tutti dicono assurdo: la guerra.Le scienze sociali dicono che la violenza è intimamente connessa alla vita in comune. Essa è semplicemente espressione della sempre difficile e instabile relazione tra due persone e, per estensione, tra due gruppi. La tentazione di conquistare e dominare l’altro e, per reazione, la tentazione di ricorrere alla violenza identitaria da parte di chi si sente minacciato è intrinseca a ogni rapporto umano. Storicamente, nell’Occidente moderno, si è cercato risolvere il problema mediate due strumenti. La monopolizzazione della violenza da parte dello Stato, che ne ha rivendicato l’uso legittimo. E il fondamento democratico di tale potere, costruito con riferimento a princìpi di giustizia e di umanità culturalmente elaborati e attraverso la capacità di distribuire benessere materiale. È su questo difficile equilibrio (tra mille fallimenti) che la modernità si è costruita. Ora, però la sfida viene rilanciata nel momento in cui il monopolio della forza e la partecipazione ai benefici materiali non sono più garantiti.A dire il vero, nel periodo 1989-2008, si era pensato che, seppur vagamente, queste due condizioni potessero venire realizzate: la finanziarizzazione, infatti, garantiva la crescita, mentre gli Usa godevano dell’autorevolezza derivante dall’aver vinto la sfida con l’Unione Sovietica. Oggi, però, non è più così.Le tante questioni che agitano il pianeta (un mondo islamico che deve decidere come affrontare la sfida della modernità; la situazione in Ucraina che porta alla luce l’antico difficile rapporto tra Occidente e Russia; le persistenti tensioni che attraversano l’Asia con il riemergere della potenza cinese; la perenne instabilità africana; le violenze, il caudillismo e le diseguaglianze che continuano a segnare il volto dell’America Latina del dopo-dittature) dicono di un mondo in cui la mostruosità che sta dentro il cuore dell’uomo può tornare a esplodere. Anche in forma acuta. La risposta a questi problemi si potrà dare solo storicamente, (ri?)percorrendo le strade del XX secolo. Ma almeno due considerazioni che ci riguardano possono essere qui proposte.La prima è che gli equilibri non potranno che essere politici. Ma la politica non potrà esimersi dal fare i conti con la tecno-economia e la religione. I grandi interessi, le aspettative delle popolazioni e la loro identità profonda sono dimensioni che vanno ricomposte insieme. Evitando i fondamentalismi di chi pensa che anche una sola di esse possa essere trascurata. Con tutte le implicazioni che ciò comporta.La seconda è che, in questa situazione, occorre affrettarsi a costruire l’Europa. Se ne saremo capaci. Sia perché solo come continente politico-economico-culturale potremo esistere nel nuovo scenario globale. Sia perché, come europei, abbiano l’occasione e la responsabilità di creare una nuova forma politica che, senza coincidere con lo Stato nazione, sia in grado di arrivare a una nuova forma di unità e di capacità di decisione democratica. Un problema che in futuro avranno altre aree del mondo e, in prospettiva, l’intero pianeta.
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