sabato 10 marzo 2012
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La certezza scientifica sulle spoglie di Placi­do Rizzotto, a 64 anni dalla sua uccisione con mani mafiose, ha il profumo e il sapore del­la memoria che non si sfibra nelle curve peri­colose della storia. Il 10 marzo del 1948 la ma­fia si liberò del sindacalista socialista che gui­dava i braccianti nelle lotte per la terra. La sua morte era il passaporto per la scalata a Cosa Nostra di Luciano Liggio, il mafioso destinato a segnare il passaggio, a cavallo degli anni Cin­quanta e Sessanta, dalla vecchia mafia rurale a quella urbana. Liggio, il boss di Corleone. Sì, proprio lui, il pa­dre di tutti i mafiosi "moderni". Lui doveva ver­sare il sangue di quell’uomo di 34 anni che o­sava aizzare i contadini a occupare le terre con­trollate dalla mafia agraria. Lui doveva guada­gnare alla mafia il tempo necessario per ripro­gettare il proprio futuro e rimetterla in asse con i tempi nuovi e progressivi. Sappiamo tutti co­me è andata a finire, con i corleonesi ancora protagonisti, negli anni Novanta, della guerra dichiarata allo Stato. Una guerra sanguinosa combattuta dalla mafia stragista che è costata la vita a uomini come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Se non fosse stato ammazzato a Palermo, insieme alla moglie Emanuela Set­ti Carraro, forse oggi Dalla Chiesa potrebbe rivendicare di aver visto giusto tanti anni fa. Quando, da gio­vane tenente dei carabinieri, inda­gando sull’uccisione di Rizzotto, si era fatto la convinzione che il suo corpo fosse stato eliminato in qual­che cimitero di mafia. Appunto quella foiba di Rocca Busambra, dove solo tre anni fa, sono stati ri­trovati i resti del sindacalista. La memoria ha vinto. La mafia ha perso. La memoria ha vinto grazie alle moderne ricerche genetiche, ovvero grazie ai 'ricordi' custoditi nel Dna. Un autentico paradosso per la mafia che ha sempre voluto annientare la memoria dei suoi 'nemici', basti pensare a Mauro De Mauro o al piccolo Giuseppe Di Matteo, ma non può cancellarne il Dna. Il giorno in cui Rizzotto potrà avere una sepoltura, il giorno in cui su una lapide potrà essere scritto il suo nome, il giorno in cui i profes­sori accompagneranno gli studen­ti sulla sua tomba per spiegare chi era quell’uomo coraggioso, allora la mafia incasserà un altro brutto colpo. Com’è accaduto con 'l’albe­ro della Memoria' di Palermo, per non dimenticare le stragi di Capa­ci e di via D’Amelio. Come accade con la tomba di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio, il cui sacri­ficio è inciso nelle coscienze dei si­ciliani, dei meridionali, di tutti gli i­taliani. Il Sud ha bisogno assoluto di tanta memoria buona come segno in­dissolubile di una vita buona. Di memoria cattiva, impastata di san­gue e violenze, di sopraffazioni e silenzi omer­tosi, di connivenze e grumi maleodoranti di in­teressi inconfessabili, sono pieni gli archivi e le cronache. Ma la memoria buona ha la forza del­la sorgente che torna a zampillare contro ogni insabbiamento. La certezza per la gente del Sud di avere una tomba su cui pregare e ricordare, è la rivincita sopra ogni offesa della storia. Quel­la nostra storia sociale fatta di sudore e di lot­te contadine, di slanci e di ricadute, di avven­turose lotte socialiste e di profonde radici cri­stiane, di ristrette cerchie agiate e di masse in­colte e impoverite. È la nostra vita, il nostro passato remoto. Di ex terroni che hanno inse­guito il sogno di diventare italiani "come gli al­tri" e che l’ottusa violenza mafiosa hanno ri­cacciato indietro, essa sì in un angolo oscuro della storia. Placido Rizzotto, segretario socialista della Ca­mera del lavoro di Corleone, ex partigiano del­le Brigate Garibaldi in Carnia, un uomo del Sud che aveva combattuto per la liberazione del Nord, certamente da lassù ora può sorridere. E può finalmente riposare in pace, per la serenità ritrovata dei suoi familiari, per la pace sotto­scritta da tutti noi con la sua memoria. E con la memoria di un Sud che nel bene e nel male for­se non c’è più, ma che è pur sempre il nostro Sud.
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