sabato 12 settembre 2015
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Il commento più adeguato alla débacle del fronte pro-eutanasia ieri a Westminster è forse quello di Peter Saunders, leader della combattiva associazione Care not killing (Curare, non uccidere) che ha guidato il fronte civile contro la fallita legalizzazione del suicidio assistito per i malati con non più di sei mesi di vita: «Adesso speriamo che il Parlamento si dedichi ai problemi reali che sfidano il nostro Paese, assicurando che tutti possano accedere alle migliori cure disponibili, senza discriminazioni per i disabili o i malati terminali, e che le finanzi adeguatamente». Il larghissimo margine (330 no contro 118 sì) col quale i deputati inglesi hanno respinto l’Assisted dying bill significa molto più di quel che il margine numerico già dice. Alla Camera dei Comuni è infatti andata in scena la sconfitta dell’astratta retorica dei "diritti" nelle scelte di fine vita quando viene onestamente posta a diretto confronto con la concreta evidenza delle persone e delle loro infinite vicende individuali, intessute di sofferenze e domande che attendono qualcuno cui affidarsi. È la vita per nome e cognome che sbaraglia il teorema della solitudine autodeterminata di cui si asserisce l’essenzialità nel nome della "dignità", dimenticando però che la nostra vita è, per sua natura, un illimitato canto alla compagnia dell’uno all’altro. Nessuno è tagliato fuori se non lo si vuole isolare, se chi può e deve si carica in spalla il suo destino. Non siamo soli proprio quando siamo più fragili, e nessuna legge può far prendere alla società e allo Stato la via dello spietato isolamento di chi si trova nell’ultimo miglio del suo percorso. Al bivio davanti al quale arriva un malato cui la medicina concede solo poche chance la comunità e le sue istituzioni devono imboccare la strada della cura tanto più premurosa quanto maggiore è la sofferenza e l’angoscia che la prospettiva della morte sembra imprimere nella carne e nel cuore. Farsi carico o abbandonare: ecco l’alternativa secca che i deputati inglesi hanno compreso di aver di fronte, avvertendo la responsabilità di mostrare un chiaro segnale di consapevolezza e una direzione di marcia al Paese. E chissà se nella loro scelta un merito vada riconosciuto anche ai disabili che dall’alba di ieri manifestavano davanti al tempio londinese della democrazia inalberando cartelli per reclamare mitemente il diritto di vivere contro le pressioni che sentono crescere attorno a sé perché, al pari dei malati terminali, non si ostinino a pesare su una società pragmatica e su risicati bilanci sanitari.Va ricordato infatti che sul voto londinese gravava una duplice, pesante ipoteca, insieme economica e culturale. E se i deputati avevano ben presenti i conti pubblici non più in grado di garantire la continuità di un welfare progettato proprio in Inghilterra per tutelare la vita in ogni sua stagione, e malgrado questa evidenza hanno scelto di chiedere allo Stato di non economizzare, ancor più significativo appare il coraggio politico mostrato nell’attraversare le munite linee di una cultura che sta coniugando l’individualismo nei termini di una plumbea religione laica. Né si pensi a ordini di scuderia: l’autonomia di voto lasciata dai leader dei partiti (come il premier conservatore David Cameron, personalmente contrario alla legge) su una materia destinata come poche altre al vaglio della coscienza non consente interpretazioni liquidatorie. L’esemplare libertà mostrata dai parlamentari – libertà dalla retorica, dall’ipocrisia, dalla ricerca di un facile consenso presso un sistema mediatico che spinge in forze nella direzione opposta – aveva bisogno di sapersi spalleggiata, di rispecchiarsi in una salda radice sociale che ne evocasse la forza. È la rete sottile ma tenace, spesso invisibile all’occhio della comunicazione, che per mesi associazioni, Chiese, organismi di medici e volontari, movimenti pro life hanno tessuto nel cuore dell’Inghilterra e degli inglesi. Mostrando così al Palazzo, al Paese e all’Europa che la vita non è destinata alla solitudine, se qualcuno sa ancora cogliere e rispettare la vera voce della dignità umana.
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