mercoledì 2 gennaio 2013
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​«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?). Ma soprattutto nel Paese c’è un sentire comune disincantato che a troppi non fa più credere che ci possano essere ancora cittadini, tanto meno politici, motivati anche dal bene comune e non soltanto da interessi privati. Il pan-mercatismo di questi decenni ha anche alzato il "cinismo medio", convincendo tanti di noi che la logica degli interessi sia la sola vera e realistica, e che tutto il resto è solo chiacchiere.Sono molti gli economisti che hanno usato e usano categorie e logiche economiche (cioè dei mercati) per spiegare praticamente tutto, dal perché gli ordini religiosi fanno indossare ai loro membri abiti e pronunziare professioni solenni (per alzare le «barriere all’uscita», come accade nelle industrie), ai comportamenti dei politici e degli elettori. I primi economisti che tra Otto e Novecento applicarono la logica economica alla politica furono italiani. Tra questi Maffeo Pantaleoni, che sosteneva che le scelte di politica economica e fiscale dipendono «dall’intelligenza media» presente nel Parlamento. Amilcare Puviani, poi, con la sua "Teoria dell’illusione finanziaria" riteneva che il sistema fiscale di un Paese è accettato dalla masse sulla base di una duplice illusione: che la pressione tributaria sia minore di quella reale e che il gettito sia usato per scopi di bene comune, e non per gli interessi privati della classe dominante. Vilfredo Pareto, l’economista italiano più geniale di sempre, continuò questa tradizione, aggiungendovi l’importante elemento che gli esseri umani sono mossi normalmente da passioni e da interessi, ma hanno l’invincibile tendenza a dare una «vernice» logica alle loro azioni. Nel caso dei politici, la «vernice» è il bene comune o l’ideale, mentre la reale motivazione è il potere.Questo approccio economico alla politica è oggi dominante e pervasivo, eppure coglie soltanto alcune dimensioni delle realtà, ma non tutte, e spesso lascia fuori l’essenziale, tra cui il fatto stesso del voto popolare (è noto che per la teoria economica ufficiale l’elettore "razionale2 non dovrebbe votare). Sono convinto che tranne pochissime eccezioni (una di queste è Albert Otto Hirschman, recentemente scomparso), gli economisti non fanno un buon servizio al bene comune quando trattano la politica come un mercato. Anzi, commettono un errore grave e gravido di conseguenze. L’umanesimo dell’interesse (forse) funziona quando debbo scegliere l’auto o un biglietto aereo, meno per il posto di lavoro, molto poco e male per le scelte dove sono in gioco dimensioni simboliche ed etiche, come quelle politiche. Qualche settimana fa una mia collega mi ha detto: «Io appartengo alla classe agiata americana, e avrei tutto l’interesse economico a votare un programma conservatore. Ma non lo faccio, scegliendo di andare contro i miei interessi». L’economia dominante fa una estrema fatica a capire questo tipo di scelte, che invece sono molte e cruciali soprattutto nei momenti di crisi.Oggi sono molti i cittadini che vanno oltre il loro interesse economico continuando a tenere aperta un’impresa per non licenziare, a pagare tutte le tasse sapendo di essere quasi gli unici a farlo, a credere e a investire nella politica e ad andare a votare per amore civile, nonostante tutto. L’Italia ha già avuto dei momenti felici nei quali la politica, a tutti i livelli, è stata qualcosa di più e di diverso dalla ricerca di interessi privati di elettori ed eletti. Gli uomini, e ancor più le donne, sono capaci di agire anche per interessi più grandi di quelli privati, negarlo significherebbe negare l’umanità e la dignità della persona. I decenni dai quali stiamo (forse) uscendo hanno minato la virtù della speranza di poter cambiare: ma è da questa speranza, che a livello antropologico, e quindi politico, possiamo e dobbiamo ricominciare. Imboccando la strada della buona politica, che dipende certamente dalla «intelligenza media» del Parlamento prossimo venturo, ma dipende anche, e oggi soprattutto, dalla sua «moralità media».Le molte "trappole di povertà" nelle quali siamo caduti, soprattutto in alcune regioni del Sud, non si spezzano se non ridando forza profetica e fiducia in se stessa alla politica. Da qui ripartiranno anche lavoro e buona economia. Un’economia non è solo quella che oggi domina nel mondo e il mondo. L’Italia prima di Pantaleoni e Pareto, ha avuto Dragonetti e Genovesi, che hanno pensato e tentato una Economia Civile fondata sulla reciprocità e la pubblica felicità. Il 2013 è anche il 300° anniversario della nascita di Antonio Genovesi (ne parleremo a dovere su queste pagine), ed è un’occasione per riappropriarci di una economia amica della politica e del bene comune. Lavoriamo (e scegliamo con i nostri stili di vita e il nostro voto) per essere all’altezza di questo passaggio e lasciamo a Genovesi stesso (da una lettera del 1765) la parola: «Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza».
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