sabato 21 novembre 2015
Minacce ed errori da evitare (Andrea LAvazza)
 La scoperta di Sébastien, sopravvissuto al Bataclan (Marina Corradi) | Contro i fondamentalismi, Una civiltà ricca di senso (Leonardo Becchetti) | Il diritto al tempo del terrore (Francesco D'Agostino)|
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Dopo l’11 settembre, il vaticinio di molti, sull’onda dell’emozione, era che una nuova cortina di ferro si sarebbe inevitabilmente alzata tra Occidente e Oriente. Nessun "uomo bianco cristiano" sarebbe stato più al sicuro oltre una immaginaria linea segnata dalla minaccia terroristica e dalla incomprensione culturale. Così non è stato, come si può constatare dagli indici della globalizzazione, che dal 2001 registrano un aumento degli scambi di merci e, soprattutto, dei movimenti di persone. Le presenze di stranieri, anche di musulmani, in Europa e negli Stati Uniti sono aumentate, e soltanto una manciata di Paesi islamici sono diventati del tutto inospitali per viaggiatori provenienti dall’America o dal Vecchio Continente. Il sanguinoso attacco all’albergo Radisson Blu di Bamako, a una settimana dalle efferate e choccanti stragi di Parigi, riattiva paure generalizzate e pulsioni di chiusura. Nelle stesse ore i ministri dell’Interno della Ue decidevano una prima stretta alle norme di libera circolazione di Schengen, con maggiori controlli alle frontiere esterne. È comprensibile che la concitazione di questi momenti impedisca a molti di alzare lo sguardo con lucidità verso un orizzonte che non sia strozzato sul presente. Eppure, è compito dei decisori tamponare le falle nello scafo senza perdere di vista la rotta della nave. E ricordare anche le lezioni del passato. Le radici del jihadismo nascono da semi antichi e si sono ramificate in un terreno ampio, che copre una mezzaluna dal Sahara all’Asia, con varietà accomunate dal fondamentalismo musulmano e ora aggregate sotto l’etichetta del Daesh, il sedicente Stato islamico. In Mali i ribelli avevano provocato all’inizio del 2013 l’intervento armato della Francia, con una loro provvisoria battuta d’arresto. Ma un’operazione militare limitata di un’ex potenza coloniale, anche se ha evitato la capitolazione del Paese e la distruzione dei tesori d’arte di Timbuctu, non può estirpare completamente la pianta terroristica che, secondo alcuni, si è invece addirittura rafforzata e ha fatto ieri sbocciare contro gli stranieri uno dei suoi fiori del male, in un’ideale continuazione degli attentanti sul suolo francese. Non c’è, probabilmente, un unico regista di morte a Mosul o a Raqqa, sebbene il "Califfato" tenti sistematicamente di appropriarsi le azioni compiute, dall’Europa al Bangladesh. E non c’è, pertanto, un’unica mossa risolutiva che ci metta al riparo dalle incursioni di chi, spesso, non ha altri obiettivi che quelli di uccidere e provocare caos. Forse solo in questo si può vedere un disegno che si compone anche in assenza di una strategia pianificata centralmente: accrescere l’irrazionalità delle risposte alla minaccia di attentati e fare incrinare il modello liberale delle nostre democrazie. Un editoriale di "Dabiq", la rivista online del Daesh, invitava pochi mesi fa a provocare eventi che sparigliassero la "zona grigia" dei musulmani, ossia la maggioranza che non appoggia il radicalismo senza avere sposato in toto i nostri valori. Nel giorno fausto in cui vediamo anche in Italia manifestazioni promosse da imam e associazioni islamiche per dire no al terrorismo, il grande rischio è quello di alimentare una contrapposizione dai toni di scontro di civiltà che non può che ritorcersi contro le nostre aspirazioni alla sicurezza.Un’agenda che annoveri soltanto bombardamenti, sbarramento dei confini e leggi speciali, sebbene la difesa dei cittadini possa contemplare anche misure drastiche, sembra destinata a prolungare il potere di fascinazione dell’estremismo anti-occidentale. Come è già stato sottolineato anche su queste colonne, si deve continuare a vivere nonostante la paura, e non va sopravvalutato un nemico che si nutre proprio del nostro rinchiuderci in bunker mai davvero inespugnabili. Se ci lasciamo annebbiare dalla tentazione di reazioni viscerali di corto raggio, quelle espresse dagli improperi giornalistici e dalle ricette isteriche dei Donald Trump d’ogni Paese, rischieremo di ripetere molti errori che hanno incancrenito la ferita. Fermezza, dialogo e porte aperte sono, però, una strada altrettanto vaga se non si sa come declinare politicamente, con intelligenza, queste parole chiave. Di certo gioverebbero un maggiore coordinamento europeo e un piano di azione Ue credibile e spendibile pure a livello di immagine. Se ripensiamo alla miope e gretta trattativa sulle quote di migranti da accogliere in ciascuno Stato membro o al deludente vertice di Malta per la cooperazione con l’Africa, non si può che annotare la forte carenza di slanci propositivi. Nemmeno dopo questa settimana di terrore dobbiamo cedere allo sconforto. Se non abbiamo superiorità da rivendicare, neppure dobbiamo infliggerci un complesso di colpa che in definitiva sembra concedere qualche giustificazione ai nostri carnefici.Ci saranno altri attentati? Pare probabile. Ed è un imperativo tentare di sventarli. Dalle nostre strade fino al Mali serve tuttavia una strategia più lucida di lungo periodo. Sapendo che non esistono scorciatoie per uscire da una situazione che oggi è di emergenza e domani sarà di "ordinaria" vigilanza. Ma non tornerà tanto presto di tranquilla normalità.
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