giovedì 27 novembre 2014
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Il lieve rialzo del Brent – una manciata di centesimi – non deve trarre in inganno: la guerra del petrolio (ma ad essere precisi dovremmo chiamarla con il suo vero nome, cioè la Grande Guerra dell’Energia) è appena iniziata e non sarà la riunione dell’Opec in programma oggi a scongiurarla. Il campo di battaglia è vasto e frammentato, ma si possono individuare grossomodo due schieramenti: da una parte gli Stati Uniti e (momentaneamente) l’Arabia Saudita, dall’altra l’Iran, il Venezuela, la Libia, Paesi tecnicamente prossimi alla bancarotta che premono perché il cartello dell’Opec tagli drasticamente la produzione in modo da riportare i prezzi attorno a una soglia di sicurezza. Una soglia, quella dei 100 dollari al barile che consente agli etnocaudillos di Caracas e Quito e al fragile governo di Tripoli di tamponare la crisi economica che li affligge: sia l’Ecuador (che non a caso progetta di cominciare a trivellare in piena Amazzonia), sia il Venezuela (che attraverso il ministro degli Esteri di Caracas Rafael Ramirez ha cercato di rafforzare l’alleanza con Teheran), sia la stessa Libia (stremata economicamente da una guerra civile infinita) rischiano il collasso se i prezzi del greggio – ai minimi degli ultimi quattro anni con una caduta del 30% negli ultimi sei mesi – rimarranno troppo a lungo al livello attuale.Non ci ingannino le cifre, che pure sono eloquenti, perché il petrolio – a dirla con Von Clausewitz – non è che la prosecuzione della guerra con altri mezzi. E il vero grande bersaglio di questo braccio di ferro fra Riad e i preoccupati fratelli minori del cartello non è come si potrebbe pensare l’Iran, messo nuovamente in mora dopo il mancato accordo sul nucleare rinviato al giugno del 2015, ma la Russia di Vladimir Putin. «Per Mosca il crollo del prezzo del greggio – ha scritto il Wall Street Journal – è la madre di tutte le sanzioni». Il danno non è lieve: le sanzioni occidentali per la crisi Ucraina costano a Mosca 40 miliardi di dollari l’anno, mentre il danno provocato dal crollo del prezzo del petrolio si aggira tra i 90 e i 100 miliardi di dollari l’anno, come riconosce lo stesso ministro delle Finanze Anton Siluanov, il quale peraltro tace sull’emorragia di capitali da Mosca (130 miliardi di dollari dal marzo 2014) mentre non può tacere sul crollo del rublo e sull’inflazione salita all’8%.La regia di questa operazione, come s’intuisce, è tutta americana ed ha un doppio, forse un triplice obbiettivo: da un lato continuare a indebolire l’economia russa con le sanzioni ma anche con il crollo del prezzo del greggio (di cui la Russia, che pure non fa parte dell’Opec, è grande produttore e su di esso fa gran conto per bilanciare l’enorme dipendenza dalle importazioni), dall’altro spingere gli oligarchi a premere su Putin o forse ad accennare a una salutare ribellione nei confronti dell’uomo che aveva escluso che il greggio potesse scendere così in basso, trascinando con sé il tenore di vita della gente comune. Eloquenti in questo senso le parole di  Igor Jurgens, uno dei più ascoltati economisti russi: «Solo quest’anno, tra mancati investimenti e fuga di capitali, siamo già a 200 miliardi di dollari. Le previsioni di crescita per il 2015 sono pari a zero. Le nostre riserve ammontano a meno di 450 miliardi di dollari. Dunque possiamo resistere per due anni, due anni e mezzo. Poi...». Ma c’è una terza opzione, tutta made in Usa: quella di raggiungere l’autosufficienza energetica grazie allo shale gas, ovvero il gas di scisto che viene estratto pompando acqua ad altissima pressione fra le rocce. Nel 2000 in America se ne estraeva l’1%, oggi raggiunge il 30% e entro sette anni potrebbe superare il 50%. Come dire che a medio termine il petrolio del Vecchio continente e del Golfo perderà ulteriormente di appeal e sarà lo shale gas la nuova risorsa energetica che anche l’Europa potrebbe finire per dover acquistare. Una volta che questa guerra dell’energia sarà conclusa.
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