sabato 19 dicembre 2015
Il consolatore viene nel cuore delle sofferenze. Di fronte all'ingiustizia del mondo e dei tribunali, Qohelet invoca una giustizia e la trova nel comune destino mortale, di uomini e animali. Ma la morte vista come giustizia universale non è sufficiente per spiegare l'oppressione delle vittime. Per questo l'antico sapiente invoca l'avvento di un "paraclito", che insieme a lui anche noi continuiamo ad attendere.
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Il libro di Qohelet non è un romanzo né un trattato di teologia. È più simile a un diario spirituale ed etico. I suoi diversi capitoli registrano e narrano pensieri, emozioni ed esperienze di un viaggiatore sotto il sole. Il suo sconfinato interesse e la sua forza dipendono dalla sapienza, dalla libertà teologica e dal coraggio morale del suo autore, che continua a parlarci da almeno ventitré secoli. Solo i libri grandissimi ci riescono. Così, viaggiando la vita con Qohelet, incontriamo "pagine di diario" dove siamo totalmente immersi nel fumo della vanitas, altre dove la gioia del "cantico dei tempi" ci rapisce e conquista, per tornare subito dopo a meditare mestamente sulla morte e sulla caducità della vita. Come noi, che oggi contempliamo un bambino nascere e domani accompagniamo un amico nella sua ultima agonia. Diversi i sentimenti, diverse le lacrime, la stessa vita che scorre. Il ritmo dei tempi è anche il ritmo delle pagine di Qohelet. «Ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto della giustizia c’è l’iniquità» (Qohelet 3,16). Di fronte allo spettacolo di ingiustizia della terra, dove nei tribunali che dovrebbero garantire l’equità si annida la malvagità, Qohelet ci dice che «il giusto e il malvagio Dio li giudicherà, perché c’è un tempo per ogni cosa e per ogni azione» (3,17). E così aggiunge il "tempo" di Dio ai nostri tempi troppo squilibrati e storti. Sente il dolore per un mondo ingiusto, per l’infinito numero di vittime-Abele che abitano la terra. Ma l’attesa del giudizio universale alla fine dei tempi non è la risposta di Qohelet all’iniquità, perché il mondo "sopra il sole" è, per lui, troppo lontano e inaccessibile per poter offrire una risposta convincente alle ingiustizie del mondo "sotto il sole". Il giudizio di Dio si deve svolgere qui, sulla terra. Se il tempo della giustizia di Elohim esiste davvero, deve inserirsi dentro il nostro tempo mortale. Perché se non è dentro i nostri tempi, sarà solo fuori tempo e quindi non utile per migliorare la condizione e la giustizia della nostra vita. I tempi non-umani non interessano Qohelet, perché se non sono umani possono essere solo disumani o anti-umani. Il discorso di Qohelet è allora un umanesimo: chiede a Dio di essere il Dio dei viventi non il Dio dei morti. Il Dio sotto il sole, non il Dio nell’alto dei cieli. Se non vogliamo trasformare Elohim in un dio inutile, dobbiamo chiedergli di darci risposte qui ed ora, di darle soprattutto alle vittime. Come Giobbe, l’amico più grande di Qohelet. Come noi, i suoi amici di oggi, che accresciamo il numero dei tanti amici che ha sempre avuto nei secoli (anche se, forse, solo il nostro tempo può iniziare a capirlo veramente). Qohelet, sorprendendoci ancora una volta, ci dice che una prima giustizia sotto il sole si trova nella morte: «Riguardo ai figli dell’uomo dico: gli mostri Elohim quel che sono, vedranno soltanto un branco di bestie. Perché l’esito è uno, figli d’uomo o di bestie, muoiono. In tutti è lo stesso soffio [ruah]. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto svapora [hebel]. Tutti vanno nello stesso luogo» (3,18-20). Moriamo tutti come muoiono tutte le bestie. Siamo fratelli e sorelle nella comune e universale mortalità. Sorella morte, fratello lupo, sorella colomba, fratello verme. In questa polvere di tutti e di tutto c’è una sapienza, quella infinita di Salomone: «Tutti [animali e uomini] sono venuti dalla polvere e tutti polvere ritornano» (3,20). Da bambini impariamo a conoscere la morte vedendo gli animali morire. In quella età della vita riusciamo ancora a sentire negli animali lo stesso soffio che abita noi, i genitori, gli amici. Quei pianti disperati di fronte alla morte di un gatto o di un uccellino ci svelano un accesso più profondo alla vita che poi da adulti perdiamo. Solo i bambini riescono ad amare veramente gli animali e a soffrire per il loro dolore – e forse solo i vecchi che hanno la grazia di tornare bambini possono avvicinare quel primo amore. Qohelet ci aiuta a recuperare quello sguardo dell’infanzia, a riconoscere nel dolore della terra il nostro stesso dolore. Ci fa riascoltare il primo soffio della creazione. L’orizzonte dentro il quale Qohelet colloca il suo discorso è quello dei primi capitoli della Genesi. Conosce bene il soffio-spirito che Elohim aveva iniettato nelle narici dell’Adam, il terreste, rendendolo vivente (Genesi 2,7). Risuona nei suoi versi «polvere sei e polvere ritornerai» (Genesi 3,19). Ma quella di Qohelet è una Genesi diversa. La terrestrità dell’Adam non lo fa dominatore degli animali e delle specie viventi: l’Adam di Qohelet è prima di tutto creatura come tutte le altre. Sapeva che l’uomo è stato ed è continuamente ricreato «a immagine e somiglianza di Dio», come cosa «molto bella e molto buona» (1,35). Non lo nega, non lo può negare, ma vuole dirci qualcos’altro: prima di essere diversi dal resto della creazione siamo uguali a tutti i viventi, perché, proprio come loro, siamo mortali e viviamo finché il dono del soffio vive. Solo Dio non muore. L’uomo non è Dio perché muore, e la sua ribellione originaria e perenne è il voler negare la propria mortalità – anche questo è Genesi (cap. 3). La natura non è Dio perché muore. Ogni serpente, ogni idolo, ci promette e cattura promettendoci di eliminare della morte. Qohelet non solo riafferma questo messaggio profondamente e genuinamente biblico, ma vi trova anche una risposta alla sua e nostra domanda di giustizia. La giustizia inscritta nella morte di tutti gli animali diventa una giustizia universale. La vanitas del grande, del ricco, del disonesto, non sta soltanto nel loro morire come muoiono le vittime e i poveri (questo ce lo aveva detto nel capitolo 2). C’è una vanitas ancora più radicale e profonda: muoiono anche loro come muoiono i cani, gli insetti, gli uccelli. Il più potente faraone muore come il riccio e come la mosca. La diversità nel lusso delle tombe e delle piramidi è solo vanità, è effimera, non conta nulla (2,16). La morte universale è la prima giustizia universale. Di fronte a questo destino cosmico comprendiamo di nuovo perché l’unica felicità possibile e vera è quella che possiamo trovare dentro la vita finché ci abita quell’unico soffio-spirito donatoci: «E ho visto che non c’è un bene che faccia più gioioso l’Adam delle sue opere: è questo il suo profitto (3,22). Scoprire la giustizia della morte che attende tutti i viventi e tutti allo stesso modo, porta Qohelet a lodare per la seconda volta la gioia delle opere umane, la felicità del lavoro. Cresciamo e invecchiamo bene quando la compagnia del dolore e della morte ci accresce la gioia della salute e la felicità di tornare agli affari ordinari della vita. Il canto di Qohelet è allora un canto crudo e autentico alla vita, anche quando la disprezza perché deluso dalla malvagità delle opere degli uomini sotto il sole: «Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli; dalla parte dei loro oppressori sta la violenza, ma non c’è per loro un consolatore. Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (4.1-3). È l’assenza di consolazione degli oppressi che fa dubitare Qohelet della superiorità dell’essere al mondo rispetto al non-esserci. Non dobbiamo perdere neanche un briciolo della forza e della bellezza di questo verso di Qohelet: una vita da oppressi senza consolatori è peggiore della morte. La sua è una condanna dei troppi oppressori presenti e un appello ai consolatori assenti. Coloro che piangono possono essere chiamati "beati" solo se sono consolati. L’inferno è il luogo delle "beatitudini a metà": poveri senza Regno, puri che non vedono Dio, miti senza terra, afflitti sconsolati. E stando dalla parte degli oppressi resi tali dagli oppressori (l’oppressione è una costruzione tutta umana), Qohelet trova la forza di invocare un consolatore, un "paraclito". Anche se non lo vede, né vuole inventarselo – non c’è peggiore inganno di un consolatore inventato per rispondere alla nostra domanda vera di consolatori. Forse l’avvento di consolatori non-artificiali può essere chiamato e atteso soltanto ponendo il cuore nelle discariche dove i bambini cercano gli avanzi della nostra opulenza, nelle guerre dei ragazzi-soldato, accanto alle bambine vendute per miseria disperata ai mercanti di sesso. Solo da lì lo possiamo desiderare, forse intravvedere. Qohelet non ha creduto che il riscatto di queste vittime inconsolate dovesse essere rimandato al paradiso. Ha tenuto vivo il dolore della terra per l’assenza di consolatori qui ed ora, e così ha reso non-vana l’attesa del suo avvento. Se avesse ceduto alla tentazione delle consolazioni apocalittiche e idolatriche, la Bibbia tutta avrebbe perso capacità di avvento. E invece ha continuato a porre domande, resistendo nell’assenza delle risposte. La bontà delle domande esistenziali si misura con la loro capacità di resilienza nei tempi della carestia di risposte vere e dell’opulenza di risposte false. Senza rinnovare questa resistenza e questa attesa, anche il Natale finisce per svaporare nella vanitas dei centri commerciali e del sentimentalismo delle atmosfere artificiali create a scopo di lucro. La stella del Natale per essere nuovamente vista nel nostro cielo inquinato ha bisogno di essere attesa, mettendosi accanto alle vittime, agli oppressi delle terra e con loro guardare nella lunga notte ancora verso oriente. Il Natale più bello è quello atteso insieme a Qohelet. Buon Natale a tutti. l.bruni@lumsa.it

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