sabato 24 settembre 2016
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Molti dei cultori dei nuovi, strabilianti saperi tecnoscientifici parlano di bioconvergenza, praticando una sorta di nuova alleanza tra cosmologia, biologia e intelligenza artificiale che dovrebbe condurre ad andare "oltre la specie", per aprire all’uomo la possibilità di un assorbimento creativo e totale del "naturale" nell’artificiale e nel "culturale".Domandiamoci: affermazioni centrali di Humanae vitae, di Veritatis splendor e di Deus caritas est sulla natura umana, largamente criticate e, soprattutto, spesso ignorate, sono ancora sostenibili?Prima di tentare una risposta a questa questione è importante ricordare che il compito fondamentale del magistero ecclesiastico è quello di garantire l’unità nella confessione comune della fede. Il magistero ha un compito e una natura testimoniale, riconoscendo a questa categoria tutta la portata che la buona teologia fondamentale del nostro tempo le assegna. È con questo sguardo che siamo chiamati a chinarci sui cosiddetti presupposti antropologici di Humanae vitae.Gli Atti del Congresso Humanae vitae: 20 anni dopo, celebratosi nel 1988, pubblicano un brevissimo scritto di Carlo Colombo, considerato fin dai tempi milanesi il «teologo di Montini», in cui si afferma: «…l’enciclica Humanae vitae è stata spesso mal compresa. Affascinati dal problema morale discusso della pillola veniva invece trascurato, o non sufficientemente sottolineato, l’insegnamento principale dell’enciclica: l’affermazione, cioè, dell’indissolubilità dell’aspetto unitivo e dell’aspetto procreativo dell’unione coniugale nell’atto sessuale; i due aspetti dell’atto sessuale sono tra loro indissolubilmente uniti e non si possono separare arbitrariamente».Quale argomento antropologico sta, secondo Carlo Colombo, alla base di questa affermazione magisteriale? Nel breve intervento citato egli lo enuclea così: «L’atto sessuale non è voluto da Dio in primo luogo per il bene fisico dell’individuo o per un bene temporale della specie, ma per una missione». Dio chiama l’uomo a cooperare alla sua missione creatrice e così assegna all’atto sessuale gli stessi fini e la stessa missione della creazione. Quali sono? Quelli propri della creazione come atto di amore il cui fine, sia per il singolo che per la specie, è un rapporto con Dio per tutto il genere umano: un bene spirituale e non materiale, il bene fisico è necessariamente subordinato a quello spirituale. È questo un commento che rivela la intentio profundior dell’Enciclica. Non si può negare che ad essa sia sottesa una antropologia umanista. Misconoscere questo aspetto significa non dare ad Humanae vitae tutto il suo. Ben lo comprese Karol Wojtyla, prima con il memorandum di Cracovia, poi con un significativo articolo pubblicato su Lateranum nel 1978 e, soprattutto, con il magistero e l’azione svolta come Giovanni Paolo II sulla teologia del corpo, sul matrimonio e sulla famiglia. Ma Wojtyla percepì con chiarezza la necessità di una esplicitazione accurata dei presupposti antropologici di Humanae vitae in chiave personalista. Va qui notato che il costante approfondimento delle ragioni degli irrinunciabili pronunciamenti magisteriali fa parte del normale lavoro dei teologi e dei filosofi cristiani. Si muove in questa direzione Balthasar quando afferma, sulla base di argomenti teologici e ontologico-logici, che «L’atto dell’unione di due persone nell’unica carne e il frutto di questa unione dovrebbero essere considerati insieme, saltando la distanza nel tempo»… L’indissolubilità tra l’aspetto unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale proposta da Humanae vitae mette in campo il tema della coscienza e quello del corpo.Ben diversamente dalla pretesa di produrre attivamente da se stessa cosa sia il bene e il male, la coscienza si rivela in un certo senso passiva. La dottrina di origine paolina della coscienza come testimone evidenzia assai bene questa sua dimensione costitutiva (cfr. Rm 2,15 e 9,1; 2Cor 1,12). Acquista così tutta la sua decisività il corpo. Si aprirebbe qui la necessità di mostrare il nesso del corpo con il tema della carne attraverso l’autoevidenza originaria dell’eros.Che dire di fronte al dato che la benefica profonda e profetica norma di Humanae vitae sia nella pratica stessa di molti cristiani contraddetta? Nel breve biglietto di Carlo Colombo cui già abbiamo fatto riferimento, il celebre teologo milanese parla dell’importanza decisiva e insuperabile della libertà, giungendo ad affermare: «Comprendiamo con quanta ragione egli [Paolo] avvertiva i primi cristiani, e avvertirebbe i cristiani di oggi, di non giudicare, lasciando il giudizio ultimo a Dio (cfr 1Cor 4,5)». Nello stesso tempo il teologo rinvia alla doverosa necessità della testimonianza cristiana, personale e comunitaria, circa l’insegnamento di Humanae vitae. Testimonianza che sarà necessaria fino alla fine, per estendere nel mondo, per mezzo della Chiesa, il Regno di Dio.* Cardinale Arcivescovo di Milano
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