mercoledì 1 ottobre 2014
Nuova Pac europea, l’eccellenza e la sfida dei costi. L'Italia punta sul mercato ricco e le eccellenze, ma le imprese devono fare i conti con la crisi e la carenza di risorse. (Paolo Viana)
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​«Questa non è la Pac che vogliamo» va ripetendo il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina. Poi però ti dice che in fondo in fondo non è così male una politica agricola comune che, dal 2014 al 2020 destinerà al nostro Paese 52 miliardi. Che «ci sono spazi per operazioni vere di sostegno alle imprese». L’ha ripetuto ieri al vertice informale dei ministri Ue dell’agricoltura. Doveva essere un appuntamento importante nella sua informalità, l’occasione per impegnare l’Europa a ragionare di Expo; si è risolto in una allegra scampagnata dei ministri europei tra i vigneti della Franciacorta, tanto cari alla Regione Lombardia, e il teatrino goloso allestito a Pollenzo da Carlin Petrini, nume tutelare della sinistra del gusto. Martina ha sostenuto che a Milano è stato fatto «un salto di qualità», che l’Europa nei prossimi anni «avrà un ruolo di protagonista assoluto a livello internazionale» e che «sono emerse idee, proposte ed iniziative concrete» ma quello fornito alla stampa è un elenco di emergenze come la fame, lo spreco di cibo e la gestione delle risorse idriche oppure di scelte già fatte, come l’ecosostenibilità e la biodiversità alla base della Pac. È evidente che né l’Ue né la piccola Italia hanno ancora una ricetta innovativa per "nutrire il mondo", tema dell’Expo che inizierà tra pochi mesi a Milano. Non ce l’hanno perché non ce l’ha nessuno, tant’è che, l’ultima grande crisi finanziaria ha affamato interi popoli e una guerra apparentemente locale come quella tra Russia e Ucraina ha messo in ginocchio le campagne europee.
Insomma, dall’Expo non aspettiamoci sorprese, né una nuova rivoluzione verde e nemmeno il rimestio planetario prodotto dagli Ogm. Anzi, le agrobiotecnologie dividono ancora e impongono all’Ue "assediata" uno svogliato gioco di rimessa, in cui la priorità è ridurre la spesa agricola - che impegna ancora il 38% del bilancio comunitario - e dimostrare al contribuente che si sussidiano le campagne non perché producano del buon cibo ma perché svolgono funzioni sociali (la cosiddetta multifunzionalità) e rispettano l’ambiente (ecocondizionalità e greening). Se poi c’è un modello italiano di agricoltura, esso si cela dietro il canone dell’eccellenza, un mantra che tutti i ministri di tutte le maggioranze ripetono; forse perché loro cambiano, ma i dirigenti ministeriali no. La politica dell’eccellenza è quella che scommette tutto sull’assoluta superiorità sensoriale, culturale, dietetica ed ovviamente nutrizionale del made in Italy e ipotizza che la massa dei consumatori, una volta informata di questo valore aggiunto, sia disposta a pagare, per mangiare italiano, la differenza di prezzo che deriva dai maggiori costi che gravano su un’agricoltura quando non usa Ogm, non fa dumping sociale, non ha fonti energetiche proprie né canali distributivi ed è soggetta al rispetto di normative stringenti (qualcuno dice "asfissianti").
La Pac, nata nel dopoguerra sulla scorta di ben altre esigenze, con le ultime riforme non ha perso del tutto di vista l’obiettivo di garantire l’approvvigionamento di derrate, ma la reinterpreta in uno scenario caratterizzato da prezzi volatili e da una rete di interdipendenze che impone ai governi di coniugare le politiche agricole, quelle commerciali e la cooperazione internazionale. Non a caso ieri Martina ha concluso il vertice milanese con l’eurocommissario Ciolos (il quale ha gelato la platea affermando che anche gli aiuti straordinari per l’embargo russso dovranno essere coperti con il bilancio agricolo dell’Ue) e con il direttore generale della Fao Graziano da Silva. Lo stesso Martina ha spiegato in quella sede che la nuova Pac e l’Expo guardano "insieme" alla conferenza mondiale che alla fine del 2015 ridefinirà gli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite. In uno scenario così complesso può sembrar strano che nei consessi internazionali gli italiani abbiano l’abitudine di magnificare i tajarin e il bagoss, facciano del marketing territoriale invece di cercare di alleggerire quel "delta" dei costi aziendali (energetici, tributari, ecc.) che oggi gli esperti quotano poco sotto il 30%, rispetto ai sistemi agricoli di altri paesi. Come se si sapesse che la battaglia della competitività è persa e che conviene presidiare le nicchie e farsi piacere questo smagrito bilancio agricolo, senza perdere l’occasione di compiere "operazioni vere".
Il che non avviene tanto intonando odi all’eccellenza del made in Italy ma, come Martina sta cercando di fare, accordandosi con le Regioni per gestire al meglio le risorse rimaste. Queste transitano per una parte importante, lo sviluppo rurale, attraverso gli enti territoriali e permettono di finanziare il ricambio generazionale e l’ammodernamento delle imprese agricole, che insieme all’accorpamento fondiario e alla sburocratizzazione possono dare un contributo a ridurre il gap della nostra agricoltura. Il governo Renzi ha iniziato ad aggredire questi problemi con una serie di decreti. Il primo, Terrevive, dà solo un segnale ma è un segnale importante: il demanio affitterà o venderà 5.500 ettari di campi a giovani imprenditori agricoli. È soltanto un segnale perché si tratta di un’estensione terriera limitata e peraltro esaurisce il patrimonio agricolo demaniale, visto che la maggior parte della proprietà fondiaria pubblica appartiene agli enti territoriali. Campolibero – altro decreto – ha normato le colture Ogm ma ha sfrondato i controlli ambientali eliminando, con il registro unico, le troppe duplicazioni che affliggevano le aziende, ha cancellato alcune sanzioni penali e ha concesso ai caseifici dop di installare più linee nello stesso stabilimento, anche in questo caso abbattendo sensibilmente i costi di produzione. Insomma, ci sono riforme strutturali che si possono fare a costo zero. Così il decreto 133 (Competitività) ha semplificato la gestione dei rifiuti agricoli e ha introdotto una serie di misure per la promozione delle esportazioni, un fronte su cui il governo si sta battendo in queste ore affinché i nuovi aiuti all’ortofrutta non prendano di nuovo la via dei Paesi nordeuropei.
I polacchi, ad esempio, sono più rapidi di noi nel certificare la perdita dovuta all’embargo di Mosca perché, sempre per una questione di costi, trovano più conveniente incassare l’aiuto senza procedere al raccolto. Tra le battaglie combattute dai governi italiani una delle più incisive in termini di riduzione del passivo accumulato in questi decenni è quella all’agropirateria. Tema affrontato dal decreto Competitività e sul quale si intende siglare un’alleanza planetaria in sede Expo. Secondo Martina, in Europa c’è già l’accordo per combattere insieme questa battaglia nel Forum sulla lotta alla contraffazione che sarà organizzato a Milano prima di Expo. Oggi l’Italia esporta prodotti agroalimentari per 28 miliardi di euro eppure nel mondo girano altri 60 miliardi di falso made in Italy: recuperarne anche solo una parte è il modo di dare concretezza al mito dell’eccellenza.
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