giovedì 26 luglio 2012
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​Da quando se ne è venuti a conoscenza, ormai qualche mese fa, la notizia ha suscitato dibattito e commenti che, ora qua ora là, non accennano a diminuire. Mi riferisco alla decisione del Politecnico di Milano di adottare, a partire dal 2014, l’inglese come unica lingua per gli insegnamenti impartiti nei corsi delle lauree magistrali e di dottorato. Quasi tutti gli intervenuti, se non mi sono perso molti contributi, si sono dichiarati a diverso titolo contrari alla decisione, sia pure con differenti motivazioni. Pur sostenendo l’importanza strategica dell’apprendimento di una o più lingue straniere fin dai banchi delle elementari per potersi così aprire, da giovani, alla frequentazione di scuole e università all’estero e, da adulti, a maggiori e più ricche occasioni occupazionali, molti hanno voluto distinguere tra lingua come veicolo e lingua come contenuto: nel primo caso un mezzo per comunicare tra stranieri e per rendere loro intelligibile il nostro pensiero, nel secondo lo schema concettuale di riferimento primario con cui mettere a fuoco il pensiero stesso. In particolare, per alcuni si finirebbe con il sottovalutare l’importanza del rapporto tra lingua madre e struttura logico-argomentativa alla base di ogni ragionamento.Concordando con questa impostazione, la voglio sostenere allargando la riflessione a tematiche economiche. In un’università che ben conosco, il nostro attuale premier iniziò vent’anni fa una meritoria opera di internazionalizzazione dell’ateneo: corsi in lingua inglese tenuti da docenti italiani o stranieri, interscambio di studenti, presenza istituzionale ai principali eventi accademici di settore internazionali, rapporti di collaborazione con primarie università straniere. Questa strategica attività di presenza nel mondo ha portato quell’università a raggiungere, in ciascuno dei campi citati, percentuali significative e le varie classifiche internazionali di categoria lo hanno via via riconosciuto. Fin qui ovviamente tutto bene. Questa decisa scelta di campo, che ovviamente orienta anche le carriere accademiche e il modo con cui queste vengono dai singoli pensate e costruite in funzione del contesto di azione, finisce però, senza – sia chiaro – nessuna volontà o decisione presa in tal senso, con il mettere in ombra tematiche di portata più nazionale. Non nel senso, ovviamente, che queste non vengano trattate, ma che l’angolo di visuale e il metodo con il quale le si approccia è quasi solo quello internazionale: il Paese ha molto da migliorare in economia e il confronto è sempre utile e però, così procedendo, pare alto il rischio di allevare una generazione di docenti, e a ricaduta più generazioni di studenti, omologati a una cultura economica, per quanto positiva, che tutto appiattisce e uniforma. Ciò in un momento storico in cui, al contrario, emergono differenti modelli di sviluppo, molti di successo proprio perché originali.Si può a buon diritto sostenere, ad esempio, che l’economia del nostro Paese si fonda, anche nell’incerto passaggio odierno, su imprese caratterizzate da quattro componenti strutturali: la piccola-media dimensione, la proprietà familiare, la vocazione imprenditoriale e l’attività a prevalenza manifatturiera. Queste quattro caratteristiche, integrate fra di loro, costituiscono un unicum nel panorama economico internazionale per contributo alla creazione del prodotto interno lordo, per capacità di export, per numero di posti di lavoro, per numero di imprese. In Italia, il contributo sul totale, in queste come in altre grandezze economiche, di imprese con questa fisionomia è tra i più alti in percentuale, ma spesso anche in valore assoluto, rispetto a quello realizzato da imprese a queste confrontabili in altre economie nazionali sviluppate. Anche al fine di ridurne gli aspetti negativi, pur presenti, e di migliorarne l’efficacia si dovrebbero dunque incentivare gli sforzi di comprensione del fenomeno, fin nelle sue radici storiche, di analisi del contesto attuale e di proposta, anche legislativa, di interventi ad hoc. Al contrario, va per la maggiore, soprattutto come sentimento di fondo, il giudizio di nanismo industriale così inadatto in epoca di globalizzazione, di favoritismo che si contrappone all’affermazione del merito, di accentramento imprenditoriale da "uomo solo al comando" e di arretratezza economica da manifatturiero. Ciò, minando alla radice un nostro patrimonio, uno dei pochi che abbiamo in economia, non può che farci del male.Parliamo inglese, e qualsiasi altra lingua del mondo, ma per difendere e far conoscere le nostre positività, non per veicolare surrettiziamente gli altrui punti di vista. Parliamo le lingue degli ambasciatori che da sempre cercano di unire coloro che restano diversi e quelle dei nostri imprenditori che portano le proprie merci dappertutto. Che importa, in alternativa, conquistare il mondo se il costo è "perdere sé stessi"?
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