lunedì 8 aprile 2013
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Stiamo precipitando in una vera e propria trappola di povertà. La spirale è ben delineata: (1) lo Stato è indebitato e deve trovare risorse; (2) le risorse non vengono dal reddito-Pil perché siamo in recessione; (3) si è costretti a usare la leva fiscale, soprattutto su famiglie e imprese; (4) l’esasperata pressione fiscale riduce ancora il reddito prodotto; (5) diventano necessarie altre tasse per trovare altre risorse; (6) il reddito si riduce ancora, e così via, in una sorta di danza macabra che si avvita su se stessa verso il basso. E come se non bastasse, le imprese non trovano credito da banche bloccate da problemi (e miopie) loro propri e da regole esterne. Meno male che, ieri, il governo Monti ha dato forma a un provvedimento – finalmente autorizzato dalla Ue – che è destinato a porre fine a una scandalosa vessazione aggiuntiva: i debiti non pagati dalla stessa identica macchina statale che tar-tassa le imprese con una pressione fiscale che è quasi il doppio di quella sulle rendite. Comunque sia, siamo al cospetto di un teorema che farebbe la sua bella figura in qualsiasi trattato di economia che volesse descrivere la crisi perfetta di un sistema economico.Simili crisi perfette hanno portato al declino di intere civiltà. Ormai sappiamo anche che la via di uscita reale (non quelle immaginate per ignoranza o propaganda) è una sola: rilanciare lo sviluppo economico, e quindi il lavoro, la domanda e il reddito. In realtà, però, questa non è la soluzione ma il cuore del problema, perché per poter far tutto ciò dovremmo allentare i vincoli imposti dall’Europa al rapporto debito/Pil, e permetterci investimenti pubblici che ci consentano, da qui a qualche anno, di riprendere appunto un sentiero di vero sviluppo. Una impresa che si trova in grave crisi può e deve certamente ridurre i costi, ma se non investe e rilancia un nuovo progetto d’impresa non ha futuro. La crisi o è aurora di un giorno nuovo o è tramonto: occorre stare attenti perché i colori del cielo si assomigliano, e potremmo confonderli.Sono sempre più convinto – per fortuna in compagnia di economisti come Amartya Sen – di ciò che sulle pagine di “Avvenire” è stato scritto più e più volte: l’Italia e gli altri Paesi in crisi debbono rinegoziare in Europa i noti parametri oggi posti alla base del Fiscal Compact, e dar vita a una stagione di nuovi investimenti che rilancino lavoro, impresa, competitività, e – prima di tutto - scuola e università. Le nostre imprese non sono “cotte”, possono ripartire perché hanno delle potenzialità ancora troppo poco valorizzate, sui piani tecnologico, commerciale e delle intelligenze tanto quanto – soprattutto al Sud – su quelli della cultura, dell’arte, del territorio, del turismo. Ma senza nuovi grandi investimenti di sistema e con una “visione” (che a oggi non c’è), questi nostri immensi patrimoni non producono reddito né lavoro, o non ne producono abbastanza.Nella trappola in cui siamo caduti, gli imprenditori, i lavoratori, le famiglie non riescono da soli a risollevarsi: c’è un urgente bisogno di un’azione pubblica decisa, forte, coerente, veloce. Ma c’è di più: gli imprenditori e i lavoratori sono esausti, e le energie residue per resistere, e non arrendersi, sono davvero poche. E qui, ancora una volta, è bene essere chiari: non ci sono alibi per nessuno, solo una classe politica e un Parlamento irresponsabili potrebbero assistere passivi a questo scenario. C’è poi un fattore culturale da tenere in considerazione. Se guardiamo la storia ci accorgiamo che le classe dirigenti, in Italia e molti Paesi latini, non hanno avuto uno sguardo benevolo verso il lavoro, i mercanti e le imprese. Hanno guardato i mercanti «come Giuda» (ce lo ricorda il titolo del bellissimo libro dello storico Giacomo Todeschini, 2011), cioè gente moralmente equivoca perché, proprio come Giuda, trafficano «a scopo di lucro», per trenta denari, per beni privati.Invece è buono il denaro speso dallo Stato e dai governanti, perché, a differenza dei mercanti, quel denaro ha come scopo (si dice) il bene comune, non il turpe lucrum. Così il debito pubblico sarebbe diverso e moralmente migliore dei debiti e crediti privati, perché questi ultimi nascono da interessi e egoismi particolari, mentre il debito pubblico nasce per il bene comune. È una storia antica, di cui non siamo sempre consapevoli, ma che è ben radicata nella nostra coscienza e nelle prassi collettive. Se però vogliamo uscire dalla trappola in cui siamo caduti dobbiamo guardare, politicamente e culturalmente, gli imprenditori in modo nuovo e diverso. Innanzitutto, non si vederli in opposizione al lavoro ma come suoi grandi alleati.Dobbiamo poi finirla di confondere i veri imprenditori e la loro azione e vocazione civile con gli “speculatori” e coi “faccendieri” che imprenditori non sono, che depredano lavoratori e ambiente, e alimentano non "paradisi" ma “inferni fiscali” (davvero non sapevamo già che le grandi banche hanno da sempre filiali in queste isole “infelici” per operazioni offshore?). E in questa confusione troppo spesso gli imprenditori continuano a essere considerati da pezzi importanti dell’opinione pubblica potenziali evasori e imbroglioni, e quindi meritevoli di essere pubblicamente vessati. Questi sono veri e propri peccati sociali, di cui siamo responsabili tutti, se restiamo passivi e silenti.Serve un nuovo pensiero su lavoro e imprenditori. E spunti e suggestioni ci giungono ancora da Francesco e dalla tradizione francescana, che – anche se può sembrare paradossale, vista la rinuncia da parte del povero frate di Assisi proprio alla sua iniziale condizione di ricco commerciante internazionale – valorizzò i mercanti e la loro funzione sociale. Non li considerava «come Giuda», ma diede vita a un laico ordine terziario che includeva molti di loro. Si realizzò, così, una strana affinità elettiva tra i poveri "per scelta" e molti mercanti conoscitori di denaro e di finanza.Non va poi dimenticato che in molte città medievali i mercanti erano annoverati tra i pauperes, tra i poveri, perché non erano percettori di rendite ma vivevano di redditi sottoposti all’alea del mercato, alle sue incertezze e avversità. Oggi come ieri l’imprenditore vero è qualcuno che rischia i propri talenti e le proprie risorse per creare beni e lavoro. E per questo è amico dei poveri, soprattutto dei poveri di lavoro. Non vive di rendite, e quindi se non crea e innova cade a terra. E può cadervi anche innovando e facendo bene il proprio mestiere: lo stiamo vedendo troppe volte in questi tempi di crisi. La possibilità della sventura è parte della condizione umana, anche dei giusti, ma per questi può non essere l’ultima parola. Ridiamo fiducia e stima agli imprenditori, e con loro al mondo dell’impresa, che è il luogo dove il lavoro nasce, cresce, fruttifica. E come cittadini chiediamo di più, molto di più, alla politica e alle nostre istituzioni nazionali ed europee: oggi stanche e logore, ma solo con esse sarà possibile uscire dalla trappola.​​​​
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