sabato 20 febbraio 2016
Inverno demografico, una scossa da dare
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Le Olimpiadi a Montreal, la nascita della Apple, l’esordio del Concorde e del Pendolino, lo scandalo Lockheed, il colpo di Stato in Argentina, la legge sull’aborto, il terremoto in Friuli, lo scudetto del Torino, la nube di Seveso, il blocco della scala mobile, la morte di Mao, il bicentenario degli Stati Uniti... Correva l’anno 1976, un almanacco in bianco e nero che ci restituisce fatti di quarant’anni fa, un altro mondo. E un’altra Italia. Nella quale, per l’ultima volta, il tasso di fecondità si attestava sopra i 2 figli per donna in età fertile: per la precisione 2,11 con 781.638 nascite. Senza che si fosse ancora compreso quel che stava accadendo nella sua struttura profonda, l’Italia chiudeva l’età d’oro del ricambio garantito da generazioni più numerose – pur con un margine fattosi risicato dal 3,01 del 1946 – rispetto a quelle che gli avrebbero lasciato il posto. Pareva un fatto automatico, ineluttabile, come l’aumento indefinito del Pil, l’alfabetizzazione crescente, o il benessere sempre più diffuso. Invece era una spinta che si stava inesorabilmente esaurendo nell’inconsapevolezza generale, una pagina felice che veniva voltava per aprirsi su un capitolo ignoto della storia italiana: quello del declino demografico, un lento autunno che vedeva scivolare il dato statistico fino al minimo storico di 1,21 figli per donna nel 1997. Di lì un illusorio rimbalzo, spiegabile con l’impatto delle immigrate, ancora radicate nelle loro culture d’origine, ma che in poco più di un decennio aveva già esaurito la sua energia.Nel 2010 ci si era faticosamente arrampicati a 1,46 nati per donna, ma da lì in poi i numeri hanno ripreso a scendere un gradino dopo l’altro, una caduta libera che l’Istat ieri ha impietosamente fotografato segnalando che nel 2015 siamo planati a quota 1,35 (come dieci anni fa) e che se fosse per le sole madri italiane saremmo già a 1,28 proprio mentre le donne provenienti da terre d’emigrazione stanno rapidamente acquisendo le consuetudini riproduttive nostrane: in un solo anno il loro tasso di fecondità si è ridotto da 1,97 a 1,93 figli. Un gelido inverno.Ma l’anamnesi di una patologia profonda e drammaticamente incurata non finisce qui: la combinazione di questi dati sulla fecondità con il continuo aumento dell’età media del primo parto – ormai oltre i 31 anni – e la sostituzione delle baby boomers nel novero delle madri con le loro figlie già assai meno numerose produce un effetto moltiplicatore e, a partita lunga, una inesorabile tendenza all’implosione demografica. Sempre che non si introduca in un sistema tanto delicato e complesso un fattore in grado di invertire la rotta, con tutta la forza che occorre per far ripartire un pachiderma senza più energie.L’Italia che scopre di aver generato per la prima volta meno di mezzo milione di nuove vite – la metà di settant’anni fa, il punto più basso della storia patria – si guarda allo specchio e vede crescere le sue rughe, poco attraente per chi ne è figlio (centomila partenze verso l’estero) ma anche per chi potrebbe sognare di diventarlo e lo fa sempre meno (il saldo migratorio positivo è appena un quarto di quello del 2007).Un simile scenario dovrebbe indurre un sussulto di preoccupazione, una scossa capace di mobilitare tutte le forze responsabili, a cominciare dalle élite, la classe politica, i media, gli intellettuali. Una situazione tanto inquietante, con una proiezione sull’immediato futuro che non è per nulla difficile immaginare, si vorrebbe provocasse l’immediata convocazione di Consigli dei ministri, sedute del Parlamento, febbrili summit per confrontare ipotesi sulle possibili soluzioni da avviare, ben sapendo che saranno prevedibilmente assai lunghi i tempi di reazione di un corpo sociale nel quale è stata inoculata goccia a goccia una cultura imbevuta di narcisismo consumista, intrinsecamente sterile, che gli era estranea. Le forze politiche da settimane si interrogano su coppie e bambini, è vero, ma è tutto un altro terreno: l’idolatria dei diritti individuali sembra aver divorato ogni capacità di pensare insieme un futuro condiviso nel quale trovi spazio l’elementare desiderio di generare nuove vite, e di farlo non come frutto di un’alchimia giuridica o di un mercato che trasforma anche l’essere umano in merce, ma nel luogo dove ciò accade nel modo più autenticamente umano: la famiglia, come la disegna la Costituzione limitandosi a ricalcare la nostra natura. È davvero una pretesa eccessiva sperare di vedere il Parlamento insonne non attorno a sottili calcoli elettorali ma sulle generazioni in grado di darci un futuro? Torniamo a occuparci, per favore, di quel che vale davvero.
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