domenica 22 gennaio 2012
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Quando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave. Ciò che stiamo scoprendo oggi è la sofferenza degli imprenditori, di cui i suicidi di questi tempi rappresentano la punta dell’iceberg. L’altra sera facevo un pezzo di strada in compagnia di una imprenditrice di una media azienda industriale, una delle tante che tengono ancora in piedi l’Italia grazie al 'made in Italy' che funziona e piace nel mondo. Una donna che ha ereditato l’impresa dai genitori, e cerca di portarla avanti con talento e responsabilità. Mi ha colpito in modo tutto particolare avvertire la sofferenza psicologica e quindi profonda che questa persona vive negli ultimi tre anni, a causa della crisi che ha ridotto di metà il fatturato, mettendo a rischio decine di posti di lavoro nella sua azienda. Se questa imprenditrice fosse stata una speculatrice, probabilmente avrebbe sofferto molto meno o punto, e magari avrebbe svenduto quell’azienda al migliore offerente. L’imprenditore, l’imprenditrice, invece patisce veramente, perché in quella impresa che soffre e rischia di non farcela c’è racchiusa una buona parte della sua vita, della sua storia, del futuro proprio e della sua famiglia. Non è normale, nella nostra cultura, vedere gli imprenditori soffrire. A vederli 'piangere' e lamentarsi siamo abituati, ma sappiamo che in certi momenti è anche una parte di un gioco nella contrattazione sociale e politica. Ma il dolore di questi tempi è un’altra cosa, alla quale non siamo invece abituati. C’è, infatti, qualcosa d’altro, e di più profondo, in questa forma di sofferenza degli imprenditori, e in generale della dirigenza. La nostra cultura sta sempre più espellendo la vulnerabilità dalla sfera pubblica, soprattutto dal mondo delle imprese, per non parlare di quello della finanza. Nelle grandi imprese capitalistiche non c’è posto per la dimensione della fragilità, per il limite (negli orari di lavoro, ad esempio). Si fa carriera se si appare illimitati nella gestione del tempo, delle energie, dell’efficienza: guai a dire a un manager, soprattutto se si è giovani o addirittura neo-assunti, che alle nove di sera ci sono dei bambini a casa che attendono, o che la domenica si ha diritto a non lavorare; per non parlare degli effetti devastanti che produce, nei colleghi o dipendenti, l’ammissione di disagio psicologico, di una malattia seria o di una depressione. Il mondo economico vede tutto ciò che sa di vulnerabilità come una faccenda che non ha diritto di cittadinanza nel mondo, tutto maschile, dell’impresa (e delle istituzioni). È la famiglia, secondo la cultura dominante, il luogo dove scaricare le vulnerabilità e le fragilità, una famiglia che continua a essere pensata come il regno della donna, come lo spazio possibile della ferita e dell’accudimento. Ma la vulnerabilità è la condizione dell’umano, anche dell’economico, e se non viene accolta e accudita, a un certo punto esplode, e nel far di un mattino si passa da manager o imprenditori di successo a una clinica psichiatrica, completamente bruciati (l’ormai tristemente noto burn out), non più utili né all’impresa né alla vita familiare (o di ciò che ne resta). Questa crisi potrebbe offrirci, allora, l’occasione per trovare un rapporto giusto e nuovo con la dimensione della vulnerabilità nella sfera pubblica: ne ha bisogno il mondo dell’impresa che senza persone intere non ha futuro; e ne ha bisogno urgente il mondo della famiglia, che fa sempre più fatica a curare tra le mura domestiche quelle dimensioni di vulnerabilità che, non accolte dal mondo del lavoro, stanno diventando sempre più pesanti e ingestibili. A tutto ciò è legato un grande discorso sulla donna e sul femminile nella vita economica e istituzionale, attorno al quale stanno lavorando un numero crescente di studiosi (tra cui in Italia anche l’economista Alessandra Smerilli). Un femminile che non può e non deve più essere considerato il 'monopolista' della cura delle fragilità proprie e di quelle dei mariti e figli. Solo una vulnerabilità condivisa è sostenibile e feconda, soprattutto nei tempi di crisi.
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