mercoledì 29 agosto 2012
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Nella vicenda di quella coppia italiana che si è rivolta alla Corte di Strasburgo lamentando di essere esclusa dalla procreazione assistita e dalla diagnosi pre-impianto (la legge 40 ammette la provetta solo per le coppie sterili o infertili, e non consente la selezione embrionale) ci sono tanti elementi di sofferenza umana che ci stringono il cuore, (un figlio di cinque anni malato di fibrosi cistica, l’intenzione di un altro figlio, e la paura rinnovata perché i genitori sono portatori sani della malattia, e il desiderio che il nuovo bambino sia sano). Ma se a dare certezza preventiva del figlio sano lo si vuol generare in provetta, di solito a grappolo, e si fa diagnosi pre-impianto, in modo da scartare i malati e trasferire in grembo un solo sano, dentro la storia irrompe un’altra parola che non è più vita, ma una sorta di roulette della morte.In Italia questo non si fa. Altrove si fa, in Europa, con esclusione di pochi Paesi. Una sezione della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha detto che la nostra legge limitativa della provetta e della diagnosi pre-impianto è contraria al principio di «rispetto della vita privata e familiare» e ha condannato il governo italiano a risarcire la coppia con 15mila euro. La sentenza non è definitiva, e in passato non sono mancati i casi in cui la Grande Chambre (il massimo livello di quella Corte) ha capovolto il verdetto. Ma gli argomenti usati dai giudici meritano sin  d’ora grande attenzione, perché rivelano la deriva culturale e giuridica che si è andata formando negli anni recenti, in tema di vita nascente. C’è una frase, su tutte, che sembra una base, e trafigge il pensiero: «La Cour observe d’abord que les notions d’" embryon" et d’"enfant" ne doivent pas être confondues» (la Corte osserva prima di tutto che la nozione di "embrione" e di "enfant" non devono essere confuse). La sentenza è scritta solo in francese, enfant in francese è "bambino", enfant in francese è "figlio". L’embrione non è un bambino, allora, oppure l’embrione non è un figlio. La pietra angolare è qui, e se a Strasburgo siamo nel tempio dei "diritti umani" vuol dire che l’embrione non ha diritti di figlio, o non ha diritti di bambino, e insomma non ha diritti "umani", non se ne parla proprio, non se ne sente la ragione o il problema. È il "volto cancellato" del figlio d’uomo acceso dentro la provetta. Nella vita gli esami non finiscono mai: ma per il figlio in provetta gli esami "cominciano prima", prima che si decida se è ammesso a vivere o è congelato a morire. Naturalmente «nel rispetto della vita privata e familiare» (d’altri, non di lui).È questa assenza di sguardo, cecità sulla vita generata, la convenzionale menzogna sulla vita umana fabbricata e tosto degradata forse a pre-vita o a vita pre-umana, ciò che distrugge il caposaldo dei diritti umani, l’uguaglianza. L’embrione non è bambino, e il maschio non è femmina, e il vecchio non è giovane, e il malato non è sano, e il nero non è bianco, e la nostra comune umanità grida e chiede basta differenze, grida che le differenze non contano, chiede l’abbraccio "umano" fra tutti gli umani. E su quel punto in cui la Corte ci dà una frustata bollandoci di incoerenza, perché la nostra legge sull’aborto permette di sopprimere un figlio malformato che ha già quasi 6 mesi, noi rispondiamo non col puntiglio correttivo che distingue le fattispecie legali, come pur sarebbe possibile (l’art. 6 della legge 194 dice «rischio di vita o salute»), ma col rossore che conosce le ipocrisie della prassi. Ma diciamo che l’incoerenza è inversa, diciamo che una falla nella nave del diritto alla vita andrebbe corretta, non fatta argomento per aprire spazio alla morte.
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