lunedì 26 gennaio 2015
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In Francia sembra si voglia spingere sull’acceleratore, rilanciando l’identità di un Paese che ha sofferto, ha pianto le vittime di un attentato terroristico che ha colpito Parigi e il mondo intero, e ha ricevuto una solidarietà planetaria sincera e condivisibile. Un segnale in questa direzione è l’annuncio del ministro dell’Educazione nazionale Najat Vallaud-Belkacem di una grande mobilitazione della scuola, in ogni sua componente, «pour les valeurs de la République». Si tratta di un programma d’iniziative ambizioso e complesso, che dovrebbe coinvolgere la scuola e l’intero mondo dell’educazione, dai livelli più elementari fino ai più alti gradi accademici e della ricerca. Esso prevede misure positive come la lotta contro il razzismo, l’antisemitismo, i pregiudizi, le discriminazioni; vuole attuarle con il coinvolgimento dei familiari, l’impegno in favore dei giovani socialmente ed economicamente meno favoriti, con l’apprendimento dei valori nazionali. Approfondendo, però, si scorge che l’iniziativa si basa sulla volontà di «mettere la laicità e la trasmissione dei valori repubblicani al cuore della mobilitazione della scuola», e si scorgono altre misure cariche di ambiguità.Come motore della mobilitazione si pone l’insegnamento della laïcité nella versione francese, l’interpretazione laica del fatto religioso, l’educazione morale e civile obbligatoria per tutti, l’esaltazione di riti e simboli della République in ogni istituto educativo. Inoltre, in tutte le scuole sarà celebrata una giornata della laïcité il 9 dicembre (data della Loi de séparation del 1905), che vi saranno insegnanti incaricati di realizzare il programma, e la capacità a diffondere i valori della Repubblica sarà valutato nei concorsi di reclutamento. Così, l’universo pedagogico di Francia dovrà rafforzare la coesione repubblicana e i princìpi di cittadinanza.Come si vede, ci sono cose buone, ma anche molta retorica, e aspetti del tutto negativi. Può essere comprensibile che nei valori identitari francesi trovi spazio quella laïcité di cui i governanti transalpini vanno orgogliosi, al punto da credere di poterla esportare oltre i propri confini. Ma la laicità dello Stato comprende, di solito, un principio di tolleranza, di rispetto degli altri, che fonda le relazioni tra persone, gruppi sociali, religioni, popoli. La laicità moderna è divenuta valore universale con le sue radici cristiane, anglosassoni, illuministe, e con questo amalgama è parte integrante delle Carte internazionali dei diritti umani, e della Dichiarazione Universale del 1948 che proclama il diritto di libertà religiosa senza diffidenze o negatività, perché comporta «la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la proprio religione e il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».Già in quest’ottica, l’esaltazione della Loi de séparation del 1905 è anacronistica. Quella legge era portatrice d’un principio opposto alla laicità, più vicino alla mentalità totalitaria, quando negava l’autonomia confessionale, voleva che le Chiese vivessero secondo i diktat dello Stato, come associazioni private, senza alcun legame con i propri organi ecclesiastici. Una metodologia utilizzata ancora oggi dagli Stati totalitari che vogliono imporre natura e strutture delle Confessioni, dettare le norme per il loro funzionamento. Così assurda era la pretesa che la Francia dovette abbandonarla, per l’intervento del Consiglio di Stato del 1906, e con le modifiche legislative degli anni successivi. Da allora, l’ordinamento transalpino s’è evoluto notevolmente al punto che oggi prevede una forte rete di scuole private, riconosciute e finanziate dallo Stato, che raccoglie oltre il 16% degli studenti ed è in maggioranza di matrice cattolica. Sono rimasti latenti, invece, l’orgoglio e l’ideologia di una laïcité arcigna e diffidente. E ogni tanto riemergono, com’è avvenuto di recente, quando s’è voluta escludere la religione dagli spazi pubblici, a cominciare dalla scuola, negando cittadinanza a ogni simbolo confessionale, salvo che di piccolissime dimensioni, e si è giunti (con una decisione presto rientrata) a vietare simboli religiosi perfino alle madri che accompagnano i figli nelle gite scolastiche. Anche il progetto del 2013 dell’allora ministro dell’Educazione, Vincent Peillon, di diffondere nelle scuole una "carta della laicità" dell’istruzione, con l’intento di farne veicolo per le teorie del gender, è sostanzialmente fallito, per scarsità di consensi, nella scuola e nell’opinione pubblica. Lo choc del 7 gennaio ha riattivato il Governo, l’ha convinto a iniziative che rafforzino la coscienza nazionale ed evitino fratture e lacerazioni. Ma lo strumento appena annunciato appare povero, ambiguo, privo di quel respiro che dovrebbero avere le risposte alla terribile questione del terrorismo e dell’integrazione. Una laïcité intesa in senso negativo, di esclusione delle religioni dallo spazio pubblico, frammista a una sorta di educazione di Stato portatrice delle culture del gender, e dei principi che hanno diviso la Francia (come dividono altri Paesi) negli ultimi anni, non svolgono una funzione unificante, solidale, né costituiscono antidoti a forme di ribellismo violento e feroce che hanno radici nella storia recente d’Europa e nella globalizzazione che stiamo vivendo. Le religioni devono essere parte del progetto di rinnovamento, di tutela dei diritti umani, della vita e della famiglia, non escluse come soggetti di cui diffidare; devono ottenere il rispetto degli altri, e essere chiamate alla responsabilità dei propri comportamenti, al rifiuto di ogni forma di violenza. Il dialogo interreligioso, finalizzato alla condivisione di valori e al rigetto di ogni fondamentalismo, può entrare in un circuito di collaborazione con la scuola e le istituzioni pubbliche, non va emarginato in un’area di irrilevanza che la laïcité di matrice ottocentesca continua a teorizzare. Questi valori sono al centro del magistero di papa Francesco, anche nel più recente viaggio in Asia, e sono proclamati e sostenuti dalle maggiori personalità religiose della Chiesa ortodossa, del mondo protestante, del mondo ebraico, e di altre religioni ancora. Nessun Paese oggi può rimanere solo di fronte alla minaccia del più feroce terrorismo che l’umanità abbia conosciuto, ma nessuno può pensare di rispondere senza l’aiuto, la collaborazione, la partecipazione, degli altri, soprattutto di chi condivide l’impegno a favore dei diritti umani, a cominciare da una vera e piena libertà religiosa. Si rischia di dare una risposta povera a problemi di gigantesche proporzioni.
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