martedì 4 marzo 2014
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In attesa di capire – con lo sgomento che attanaglia in queste ore milioni di persone – se una raffica di mitra, una salva di cannone al momento sbagliato o più verosimilmente una studiata provocazione andata a segno trasformeranno il drammatico stand off ucraino in una riedizione, esattamente un secolo dopo, dell’attentato di Sarajevo che diede fuoco alla miccia della Prima guerra mondiale, un fatto appare certo: con la calcolata occupazione della Crimea da parte di nuclei armati senza insegne (un’impeccabile operazione militare per ora incruenta certamente preparata da tempo nei minimi dettagli) Vladimir Putin ha compiuto un capolavoro tattico che nessun tavolo negoziale potrà davvero ribaltare. Men che meno la Casa Bianca, al punto più basso della sua capacità di influenza dall’epoca di Jimmy Carter.Non possiamo dire allo stato delle cose se l’ultimatum, lanciato e poi smentito da Mosca, alle forze armate ucraine di stanza in Crimea porterà alla resa di quei reparti o se una guerra a bassa intensità divamperà nella penisola. Possiamo tuttavia rimarcare la condizione di estremo favore in cui si muove il presidente russo. E per farlo dobbiamo volgere lo sguardo a chi – con scarsissime possibilità e mezzi – sta cercando di fermarlo e di contenere la deriva neozarista che da tempo ha imboccato.Gli Stati Uniti, per cominciare. I moniti del segretario di Stato John Kerry, le telefonate del vicepresidente Biden al premier Medvedev, la lunga conversazione del presidente Obama con il Cremlino a quanto sembra non hanno minimamente modificato i piani di Putin. Né l’ipotesi di boicottare il G8 in programma a Sochi o peggio ancora di espellere la Federazione Russa dal G8 stesso pare avere effetto. Anzi, l’unico effetto finora è stato quello di indurre la Germania a bocciare questa eventualità. Non è un caso. Per memoria storica, per vicinanza geografica e per una lungimiranza politica che il francese Hollande e il britannico Cameron per ora non hanno saputo mostrare, la cancelliera Merkel reputa che il G8 – ma per esteso la diplomazia, il dialogo sempre e ad ogni costo, in questo saggiamente accompagnata dal nuovo governo italiano alla sua prima cruciale prova sul teatro internazionale – sia l’unica "stanza" in cui la Russia e i Paesi occidentali siedono assieme; chiudere le porte significa lasciare Putin in balia del suo pericolosissimo quanto determinato cesarismo, capace – questo è ormai certo – di riagganciare l’irredentismo della Crimea riportandola con un facile e scontato referendum nelle braccia di Mosca, ma forse anche imponendo la secessione della parte orientale dell’Ucraina. Come non scorgere nei disegni di Vladimir Putin un calcolo più che appariscente di quel Manifest Destiny (il famigerato "destino manifesto"), la discussa teoria cara al presidente Andrew Jackson considerata progenitrice dell’imperialismo statunitense, che all’epoca della guerra con il Messico legittimò l’espansionismo americano e che Putin ora riedita in Russia in chiave non marxista e nemmeno post-comunista, ma semplicemente neozarista? Per chi, come lui, ha vissuto il crollo dell’Urss come una catastrofe morale oltre che storica, l’ansia di rimettere insieme i pezzi di un impero nel quale è nato e cresciuto è palpabilissima. Per questo Putin è avversario temibile e difficilmente arginabile. Non solo, la fermezza con cui – con cinismo e scaltrezza – è sceso in campo a difendere i russi di Crimea e i filorussi ucraini non fa che rafforzare il prestigio di cui già gode in Medio Oriente come grande protettore della Siria e come arbitro dell’intesa sul nucleare iraniano. Due lotti lasciati inopinatamente sguarniti dalla manchevolezza americana.E l’Europa? Non fosse per Merkel (unica voce autenticamente rispettata), la proverbiale disunità dell’Unione si sposa con l’inefficacia storica delle sue deliberazioni e con l’evanescenza della sua diplomazia. Poco dunque può fare e poco farà, presa com’è fra spinte disgregatrici (pensiamo solo agli annunciati referendum per l’indipendenza di Scozia e Catalogna) e profonda incertezza sul futuro. Incertezza che avvolge anche il futuro del nostro fabbisogno energetico: il rubinetto del gas, lo sappiamo, l’ha in mano pur sempre Putin.
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