martedì 22 gennaio 2013
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Fa riflettere amaramente, a nostro sommesso parere, che l’Italia si sia dovuta dare una legge affinché non possano ricoprire «cariche elettive e di governo» persone condannate in via definitiva a pene superiori ai due anni di reclusione. Ma la storia, recente e meno, del nostro Paese insegna che purtroppo quella normativa era necessaria e va dato merito al governo dimissionario di avere puntualmente esercitato la delega che il Parlamento gli aveva conferito con la legge anti-corruzione. Le forze politiche che parteciperanno alle imminenti elezioni politiche hanno così dovuto sciogliere i nodi relativi ai propri incandidabili e, in alcuni casi, sono andati oltre, ritenendo "impresentabile" anche chi ha un procedimento penale in corso. L’ultimo a chiudere la (non facile) pratica è stato ieri, in extremis, il Popolo della libertà, al termine di un lungo travaglio interno. Con risvolti e strascichi davvero poco edificanti.Qualcuno ha osservato che non poteva non essere così, considerando che sul capo dello stesso fondatore e leader di quel partito pendono alcuni processi. E che il partito annovera nelle sue schiere esponenti ritenuti, probabilmente non a torto, in grado di attrarre consistenti flussi di voti dai propri territori di provenienza e tuttavia anch’essi inquisiti per reati gravi. Ecco, forse della "qualità" delle ipotesi accusatorie non si è parlato abbastanza, nei giorni scorsi: fermo restando il sacrosanto e intoccabile principio costituzionale secondo il quale nessuno è colpevole fino alla condanna definitiva, non sembrano infatti equiparabili le posizioni di chi si trova indagato/imputato per un presunto abuso edilizio o d’ufficio e di chi è sotto la lente della magistratura per presunte collusioni con la criminalità organizzata. Ma questi aspetti, essendo esclusi dal citato decreto legislativo, sono stati giustamente lasciati alla libera valutazione dei vertici dei partiti. Saranno poi i cittadini, pur nei limiti di una legge elettorale che non consente di scegliere il singolo candidato, a giudicare se davvero di liste pulite si tratta, oppure di liste non del tutto smacchiate.Sarebbe importante però che, dopo le elezioni, la politica fosse comunque capace di uno scatto in avanti sulla strada della trasparenza, vorremmo dire della volontà di essere affidabile e credibile in quanto in grado di mostrare tutto di sé al popolo sovrano. Senza timori. Un varco, in tal senso, è stato aperto da Mario Monti che, appena nominato capo del governo, ha reso pubbliche volontariamente le informazioni che lo riguardano e ha chiesto ai suoi ministri di fare altrettanto. E c’è una vecchia idea dei radicali (una delle poche che condividiamo) – «l’anagrafe pubblica degli eletti» – che nel tempo ha collezionato le adesioni di esponenti di diversi orientamenti politici e culturali.I parlamentari della prossima legislatura, quale che sarà il risultato delle elezioni, avranno l’occasione per segnare un punto pesante a favore delle istituzioni e, quindi, di tutti noi. Potrebbero trasformare in norma il buon esempio: con un clic sul mouse del computer, un tocco sullo schermo del tablet o dello smartphone, una richiesta scritta per coloro che non hanno accesso alle nuove tecnologie, qualsiasi cittadino dovrebbe avere diritto a sapere tutto di questo o quel senatore o deputato, del presidente del Consiglio, dei ministri, dei sottosegretari. Il profilo personale di ciascuno, attivato presso l’istituzione di riferimento, dovrebbe riportare ogni particolare, non solo dell’attività politico-istituzionale (presenze, voti, iniziative...), ma anche della situazione patrimoniale e delle eventuali pendenze giudiziarie. Perché un sovrano che non sa tutto dei propri servitori non è veramente un sovrano.
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