lunedì 24 giugno 2013
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La volontà annunciata al G8 di lanciare una guerra globale ai "paradisi fiscali", e le proteste dei brasiliani per i costi della Coppa del mondo di calcio, sono fatti profondamente legati tra di loro. Il "grande" calcio ha perso contatto con il buon gioco. Tra il mercato delle multinazionali dello sport e la partita di calcio nel campetto di parrocchia o di quartiere c’è sempre meno in comune, come c’è sempre meno contatto etico tra il mio comprare pane al mercato e le dinamiche dei grandi mercati internazionali dei cereali. Non si tratta più – come fino pochi decenni fa – di differenze di grado, bensì di natura, una trasformazione profonda cui ha contribuito, e non poco, l’avvento del capitalismo finanziario.È anche (non solo) questa trasformazione di natura di un calcio preda dei grandi interessi economici, che porta molti brasiliani a protestare in questi giorni contro l’organizzazione della Coppa. Quei brasiliani stanno, allora, cercando di dire qualcosa di molto importante al loro governo: investiamo le risorse nell’istruzione dei giovani, nella sanità, nella sicurezza, e quindi nella lotta alla diseguaglianza, la vera piaga che la Coppa (2014) e le Olimpiadi (2016) non curano di certo. Non si fa panem con i circenses, soprattutto quando i circenses (i giochi) sono, ieri come oggi, strumenti in mano agli imperatori. Quelli che, quando fanno pane, fanno pane non buono, pane che non arriva ai poveri ma va ad alimentare i banchetti degli sponsor e degli epuloni che costruiscono gli stadi. Il calcio non va usato come il nuovo oppio dei poveri e dei giovani, come a volte è accaduto, e non solo in Brasile. Servono, chiediamoci, nuovi stadi di calcio al Brasile, grande Paese dove in molte regioni mancano ancora buoni ospedali, buone scuole e università? E servirebbero a chi? A chi sono serviti in Sudafrica, oggi in profonda crisi economica, dopo una breve primavera pre-2010? E che cosa ci ha portato Italia 90, oltre ad appalti controversi e persino corrotti e alla distrazione dalle vicende epocali di quel periodo storico? Per non parlare di Atene 2004. Ma, in generale, perché servono gli stadi a un "calcio capitalistico" che, mentre li costruisce con soldi pubblici, svende lo sport alle multinazionali mediatiche, che fanno di tutto per rivenderci le partite in tv sul divano e da soli, trasformando così lo sport da bene relazionale in pura merce?Molte delle multinazionali che sponsorizzano i grandi eventi sportivi brasiliani e di tutto il mondo, sono anche utilizzatrici di quei "paradisi fiscali" ai quali l’ultimo G8 ha (ri)promesso lotta senza quartiere. Le dichiarazioni di guerra ai "paradisi" sono diventate uno dei rituali dei meeting dei grandi, o meglio, dei potenti della terra. Quella del G20 di Londra del 2 aprile 2009 fu una delle più solenni, annunciata come battaglia finale e decisiva alle operazioni offshore.Già, offshore, cioè azioni che avvengono a largo, nei mari, dove nessuno ci vede e i grandi mostri marini «guizzano e brulicano nelle acque» (Genesi), il regno di Leviathan e di Moby Dick. Ma l’eden del capitalismo finanziario dai mari ha inondato anche i continenti, fino alle Alpi. Anche in Europa ci sono troppi Stati, Principati, Repubbliche, Isole, dove le imprese ottengono "incentivi" fiscali non troppo diversi da quelli offerti dalle famigerate isole Cayman. I loro abitanti sono moltissime imprese multinazionali, società finanziarie, banche, che con la mano impura pongono la sede legale nei paradisi, e con quella pura producono "bilanci sociali" patinati, e magari generose fondazioni filantropiche sostenute con l’1% di quei profitti sbagliati.Lo scorso anno smisi di acquistare un prodotto alimentare, che pure mi piaceva molto, dopo un convegno a Montecarlo in cui scoprii che quella nostra impresa aveva lì la sede fiscale. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che il nostro capitalismo finanziario ha un bisogno vitale dei "paradisi fiscali". L’offerta di tasse paradisiache è la risposta alla forte domanda di banche, fondi, imprese e cittadini. Una quota impressionante del commercio internazionale, circa la metà, ricorre direttamente o indirettamente ai "paradisi fiscali". Quasi tutte le grandi imprese, per non parlare delle banche o dei fondi d’investimento, hanno interi dipartimenti dedicati all’ottimizzazione fiscale (espressione suggestiva), e pagano milioni di euro a consulenti tributari per trovare il prodotto fiscale migliore sui mercati/mari globali. La politica mondiale, anche se credesse in quanto dichiara, non ha la forza per gestire questa forma di capitalismo, per domare il Leviathan. I "paradisi fiscali" non sono allora un’anomalia del nostro sistema.​​​​
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