lunedì 9 giugno 2014
Oggi troppi non accettano più l'età del declino del corpo e della vita, perciò creiamo come suoi surrogati.
di Luigino Bruni
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​Non è vero che il progresso è un insieme di vettori orientati tutti nella stessa direzione. Per tante dimensioni della vita, la modernità ha portato grandi miglioramenti e sviluppi; non per l’arte dell’invecchiare e del morire, che sta subendo un rapido e forte arretramento.La fase finale del “ciclo dei Giacobbe” è striata dal dolore e dalla morte, soprattutto delle donne. Dopo la triste storia di Dinah, incontriamo la morte di Deboràh, «la nutrice di Rebecca» (Genesi 35,8), che fu sepolta sotto «la quercia del pianto». Quindi quella di Rachele, la moglie amata da Giacobbe, che muore di parto mettendo al mondo il suo secondo figlio: «Mentre penava nel partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché c’è ancora un figlio per te”». Tuttavia «mentre le fuggiva il respiro … ella lo chiamò “Ben-Onì” [figlio del mio dolore]; ma suo padre lo chiamò “Beniamino” [figlio della prosperità]» (35,18). Giacobbe continua a spostarsi, pellegrino ed esule, attraverso la terra promessa. E così, ancora da viandante, seppellisce Rachele presso Betlemme (la “casa del pane”), lungo la strada che lo riportava nella terra di suo padre Isacco (Hebròn). Su quella tomba eresse, ancora una volta, una stele, segnando così per sempre la sua vita e quella terra.Le donne continuano a generarci nelle doglie, e per quanti progressi la medicina abbia fatto, il parto resta sempre un momento cruciale nella vita delle madri, che conferisce loro un valore e una dignità unici nell’universo. Sono ancora troppe le donne che muoiono partorendo (circa mille ogni giorno), anche nei Paesi tecnologicamente più avanzati. Qualche volta, in questi incontri tra morte e vita si ripete l’alchimia di Rachele: il bambino “figlio del dolore” e della morte prende un nome nuovo e si trasforma in “figlio della prosperità” e della vita. E in queste trasformazioni e autentiche resurrezioni, è in genere il padre a dare al figlio il nome nuovo, e poi a rivedervi per sempre, come in ogni figlio (e di più), il volto della madre-sposa.E, infine, muore anche Isacco: «Poi Giacobbe venne da Isacco, suo padre, a Mamrè … dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come stranieri. L’età di Isacco fu di centottanta anni. Poi Isacco spirò, morì e fu riunito al suo popolo, vecchio e sazio di giorni. Lo seppellirono Esaù e Giacobbe, suoi figli» (35,27-29). La morte di Isacco ricalca quasi letteralmente quella di suo padre Abramo: «Questi sono gli anni della vita di Abramo che egli visse: centosettantacinque anni. Poi Abramo spirò, morì in una bella canizie, vecchio e sazio di giorni, e fu riunito al suo popolo. Lo seppellirono Isacco e Ismaele, suoi figli, nella caverna di Makpelàh» (25,8-9). Abramo e Isacco muoiono dopo una lunghissima vita, «sazi di giorni», «in una bella canizie», e la morte del padre è occasione di incontro tra figli che erano stati in conflitto tra di loro – splendida scena che rivive ogni tanto anche nelle nostre storie quotidiane. In entrambe queste belle morti troviamo il verbo “spirare”: morendo restituiamo quel “soffio vitale” che l’Adam aveva ricevuto al momento della creazione, e che ogni uomo riceve venendo al mondo. La vita non è un nostro manufatto, ma è tutto quel mistero che sta tra un primo respiro donato e un ultimo respiro ridonato.La contemplazione della bella morte dei Patriarchi non deve farci dimenticare che non tutte le morti, ieri e oggi, sono buone. In quelle dei bambini e dei giovani, la morte arriva come un ladro, un nemico che viene a prendersi ciò che non gli spetta. Ma ci sono tante altre morti, la maggior parte, che potrebbero essere buone se solo avessimo le risorse spirituali e morali per viverle bene. Le religioni, la pietà popolare, l’etica e la spiritualità della famiglia, molte civiltà tradizionali non occidentali, e persino le grandi ideologie del Novecento, avevano generato una buona gestione del dolore e della morte, perché avevano elaborato una cultura dell’invecchiamento e del fine-vita molto più sostenibile di quella che si sta affermando nella nostra civiltà dei consumi. Sono stati molti (anche se non tutti) i vecchi di ieri morti «sazi di giorni» e in «belle canizie» – mio nonno Domenico è tra questi. Ma oggi, comprendendo sempre meno e quindi non accettando l’età del declino del corpo e della vita, creiamo come suoi surrogati “mercati della giovinezza” sempre più fiorenti; e così dimentichiamo che per quanto possiamo ritardarla con costose cure estetiche, palestre e corsette metropolitane estreme, l’età del tramonto arriva inesorabilmente. L’incontro impreparato con il decadimento fisico è devastante, perché avvertiamo la morte come il morire di tutto: noi stessi, gli amori, “la roba”, il passato, il mondo. E non stimando e non amando la vecchiaia nostra e quella degli altri, non stimiamo e non amiamo i vecchi, che sono diventati una immensa “periferia” del nostro tempo – e così la società e l’economia dilapidano un patrimonio di grande valore e valori.
Abbiamo un vitale bisogno di nuovi carismi che ci reinsegnino l’arte della sazietà dei giorni e della bella canizie, che abbiano occhi per vedere diversamente questa grande povertà del nostro tempo, e la amino. Senza una riconciliazione docile con la vecchiaia, questa finisce, paradossalmente, per dominare anche gli anni della giovinezza, che trascorre veloce nell’ossessione che finisca. Se invece sappiamo amarla e accoglierla, ella ci rileva anche le sue delicate, nascoste ma non piccole bellezze. La bellezza è sempre stata una faccenda spirituale, molto più etica che estetica. Ho conosciuto Rita Levi Montalcini, Madre Teresa, Nelson Mandela quando erano già in tarda età, e mi sono sempre apparsi bellissimi, non meno belli dei miei nipoti e dei giovani della mia università.È poi una grande ingiustizia che oggi troppi vecchi trascorrano gli ultimi anni di vita senza nipoti e bambini attorno, che sono essenziali per rendere gioiosa ogni vecchiaia e belle le nostre canizie. Una cultura che fa sempre più morire i suoi vecchi soli o in “compagnia” di altri vecchi soli è una cultura sciocca e profondamente ingrata. Oggi in Italia il 62.5% delle donne anziane vivono sole (a fronte del 30% degli uomini); un dato molto grave, soprattutto quando pensiamo che queste donne hanno speso gli anni migliori della loro vita curando i loro vecchi, rinunciando (più o meno liberamente) a svaghi e spesso a fioriture professionali. C’è un’intera generazione di donne che sta morendo con un enorme “credito di cura”: quella che ricevono da vecchie è infinitamente minore di quella che hanno donato da giovani. Domani troveremo un nuovo equilibrio tra generazioni e tra i due sessi (speriamo sia migliore), e i crediti si ridurranno, ma ciò nulla toglie al dolore-ingiusto di un’intera generazione di vere e proprie “esodate della cura”.
La felicità e saggezza di una civiltà si misurano soprattutto da come sa invecchiare e sa morire. Quando un giovane vede un genitore o una nonna morire male, è la sua stessa vita che si intristisce, anche se non se ne accorge. Un vecchio che riesce a invecchiare e morire in una bella canizie compie un grande atto di speranza e di amore per i giovani, per i suoi figli, e quindi per tutti. Poi può anche accadere che un giusto invecchi e muoia male e disperato e che resti giusto, ma fa parte del buon mestiere del vivere lottare “tutta la notte” e infine strappare la benedizione anche all’angelo della morte.La «bella canizie» e la «sazietà di giorni» di Abramo e Isacco (e poi di Giacobbe: 49,33) ci colpiscono e commuovono di più se pensiamo che in quella fase storica per il popolo d’Israele la vita oltre la morte era un concetto molto sfumato, vago e scuro (lo Sheòl. Il Dio dell’Alleanza e della Promessa era il «Dio dei vivi», non il dio dei morti. Per loro JHWH agiva e parlava sulla terra. Per molti personaggi biblici il dolore per la morte che si avvicina è soprattutto quello che nasce dal pensiero di non poter più vedere il Signore, conosciuto come il Signore della vita, incontrato, udito e seguito vivendo nel mondo. La fede biblica è incontro, alleanza, sequela, storia. L’esperienza religiosa è fatto storico, accade nel tempo e nello spazio, è una dimensione fondamentale del vivere. Questa, non altra, è la fede che ci hanno consegnato Abramo, Isacco e Giacobbe. Si trova in loro la radice profonda della vera laicità: il luogo della fede è la storia, la terra promessa è la nostra terra. E finché ci saranno storia e terra, quella stessa voce che li ha incontrati potrà ancora incontrarci, sorprendendoci: «Davvero JHWH è in questo luogo e io non lo sapevo» (28,16). È questa la loro più grande eredità.Dopo aver seppellito suo padre Isacco con il fratello Esaù, «Giacobbe si stabilì nella terra in cui suo padre aveva soggiornato come straniero, nella terra di Canaan» (37,1).                                                                               
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