domenica 1 dicembre 2013
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I beni comuni stanno progressivamente diventando sempre più scarsi e decisivi, ma sono ancora troppo assenti dalla cultura e dalla prassi economica e politica. In economia i beni comuni fanno la loro comparsa nel 1911, e sono ritornati, dopo una lunga eclisse, solo alla fine del secolo scorso con Elinor Ostrom, Nobel per l’economia 2009. In quel primo articolo di poco più di un secolo fa ritroviamo tre principali note dei beni comuni: si trattava di uno studio sull’acqua, con una prospettiva storica, ed era stato scritto da una donna, Katharine Coman. L’acqua è ancora oggi al centro del dibattito sui beni comuni, e ne rappresenta il paradigma anche perché, a differenza dei beni economici, non ha sostituti – nota è la battuta di Lanny Bruce: «Ho inventato l’acqua in polvere, ma non so in che cosa scioglierla». La prospettiva storica è poi essenziale, perché per capire come gestirli dobbiamo sempre domandarci come siano sorti e come si siano conservati nel tempo. Senza la risorsa della memoria, che non è né la nostalgia né il ricordo ma un passato al servizio del presente e del futuro, non si capisce né il sostantivo (beni) né l’aggettivo (comuni). Per gestire bene questi beni occorre avere figli e nipoti, amare gratuitamente quelli degli altri, e saper intravedere con gli occhi dell’anima quelli che non sono ancora nati, o sono nati altrove. Ogni bambino è una forma specialissima di bene comune, che per crescere e non morire – ce lo ricorda la cultura africana – richiede «l’intero villaggio». Per custodire un bosco occorre saper curare e amare ogni singolo arbusto, che ha già in sé tutta la foresta di oggi, di ieri e di domani. E infine la terza nota, la dimensione femminile. All’inizio e alla fine (per ora) della teoria dei beni comuni troviamo due donne. E non a caso. I beni comuni sono essenzialmente una faccenda di relazioni, perché sono un rapporto tra persone mediato dai beni. Senza un’attenzione alla dimensione relazionale della vita e dell’economia, una relazione che attraversa il tempo e le generazioni, i beni comuni prima non si vedono, poi non si comprendono e infine si distruggono. La donna ha per vocazione un primato nell’attenzione intrinseca al rapporto e quindi alla trasmissione della vita; il suo sguardo e la sua carne legano tra di loro le generazioni e le affratellano. L’economia capitalistica fa una grande fatica a comprendere i beni comuni perché non affronta, in genere, i problemi in prospettiva storica (né geografica), non vede relazioni ma individui separati, ed è tutta definita all’interno del registro maschile della razionalità. Così la principale, se non unica, prospettiva economica sui beni comuni è la loro distruzione, a partire dall’ormai classico testo di Garrett Hardin sulla «tragedia dei beni comuni» del 1967 – articolo molto, troppo citato, ma raramente letto in tutta la sua complessità e ambivalenza. Se vogliamo invece comprendere, salvare i beni comuni e soprattutto crearne di nuovi, saper vedere la dimensione relazionale è essenziale. Essendo beni creati, usati e custoditi insieme, per poter dire «è mio» siamo costretti a pronunciarlo coralmente, trasformando il «mio» in «nostro», e in «di tutti», i cinque pani e due pesci che sfamano le folle. Nella creazione e gestione dei beni comuni c’è dunque inscritta una norma di reciprocità. Come ci ha mostrato il filosofo inglese Martin Hollis (Trust, 1998), la tipica reciprocità dei beni comuni risponde alla «logica dell’abbastanza». Quando decido di donare del mio per realizzare un «nostro», non pretendo garanzie contrattuali né rassicurazioni che tutti gli altri miei concittadini facciano altrettanto; al tempo stesso, ho bisogno però di pensare e di credere che «abbastanza» concittadini facciano come me, perché se pensassi di essere l’unico, o quasi, a donare sangue o a pagare le tasse, sarei fortemente tentato a non farlo più. Molti, infatti, fanno proprio così. Molti, sì, ma non tutti. Se in una comunità non esistono delle persone che, per qualche ragione, sono capaci di andare oltre questa logica di reciprocità (pur importante e necessaria), i beni comuni non nascono e non si mantengono. Se si vuol far partire un’azione ecologica in città, dar vita a una forma di economia condivisa, smettere di pagare il pizzo alle mafie, se si vuol salvare dalla morte un bosco o un’associazione, se si vuole tracciare e mappare i sentieri di montagna, è necessaria la presenza di un gruppo di cittadini, anche piccolo, che fanno da starter, che iniziano cioè a impegnarsi senza garanzie né di reciprocità né di successo. In questi «cittadini starter» è all’opera un tipo particolare di logica, quella che possiamo chiamare del «meglio io solo che nessuno». Sanno che la loro azione donativa è rischiosa, spesso soggetta a derisione perché considerata ingenua, e forse sfruttata dagli opportunisti; ma, avendo a cuore quel bene comune specifico e il Bene comune, preferiscono essere i soli a occuparsi di quel bene piuttosto che vederlo morire, sperando (non pretendendo) che la loro azione sarà imitata domani. Cruciale poi che fra questi starter civili ce ne siano alcuni con il dono speciale della cura e accudimento dei conflitti relazionali, perché usando insieme i beni comuni i conflitti sono inevitabili. È la presenza indispensabile della gratuità rischiosa e vulnerabile, incorporata soprattutto negli starter, che spiega e svela l’etimologia del bene comune. Comune proviene da cum-munus, dove cum dice l’insieme e munus dice, a un tempo, il dono e l’obbligo. I beni comuni sono faccenda di doni ma anche di obblighi verso gli altri, le future generazioni e quelle passate che ci hanno lasciato in custodia i loro patrimoni (patres-munus), ma anche l’obbligo nei confronti di se stessi, l’obbedienza al richiamo tenace della nostra interiorità e coscienza. Per tutte queste ragioni i beni comuni sono difficilmente gestibili dal solo mercato capitalistico. È quantomeno molto triste, se non scandaloso, continuare ad assistere silenti e rassegnati agli speculatori che si stanno appropriando di acqua, terra comune, foreste, materie prime, ma anche del suolo pubblico delle nostre città, dove la loro ricerca del massimo profitto su beni non loro, perché di tutti, diventa un’ulteriore tassa implicita per i cittadini, una tassa però che non alimenta le casse del Comune ma quelle di lontani azionisti. Quando i nostri Comuni daranno vita a un’alleanza con la società e le imprese civili per gestire senza scopo di lucro ma in modo efficiente il suolo, l’acqua, il verde, le strade; e quando gli Stati prenderanno coscienza che la mercificazione (molto più di privatizzazione) dei beni comuni (dalle autostrade ai trasporti pubblici) è una via miope e senza pensiero economico e sociale profondo? La società di mercato capitalistico, invece, sa produrre molto bene, e sempre di più, i «beni di club», quei beni che a differenza dei beni comuni sono esclusi per chi non è proprietario o associato. I beni di club (pensiamo ai quartieri privati) sono creati e gestiti tenendo a bada e ben lontani gli esclusi, soprattutto i poveri, da cui si proteggono con diritti di proprietà, cancelli, e sempre più guardie private. È la regola fondamentale della «porta aperta» che ha impedito alle cooperative di diventare beni di club. Non dimentichiamo, poi, che nella nostra epoca un’alta forma di bene comune è dar vita a un’impresa vera, dove qualcuno corre dei rischi per creare lavoro e ricchezza per tanti, e beni per tutti – una malattia del nostro tempo, dovuta al dominio della finanza e della sua cultura, è la trasformazione delle imprese da beni comuni a beni di club. Un’impresa-bene comune è quella che arricchisce i proprietari assieme all’intera comunità, e che quindi ha bisogno dell’«intero villaggio» per non morire; l’impresa-club, invece, è quella che nasce e muore, e fa morire, per i soli vantaggi speculativi di chi la possiede. Saremo capaci di vivere insieme, e di vivere bene, finché sapremo vedere, creare, amare e non distruggere i beni comuni, che sono la pre-condizione e l’humus dei beni privati. Ma abbiamo un estremo bisogno di antichi e nuovi starter, cittadini capaci per vocazione di generare e custodire i beni comuni, il Bene comune, di segnare sentieri di vita per tutti. ​​​
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