giovedì 17 aprile 2014
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Donetsk, Lugansk, Kharkiv, Sloviansk, Kramatorsk, la regione del Donbass, l’impero economico dell’oligarca Rinav Akhmetov. Questi nomi, questi luoghi ci avrebbero detto poco o nulla fino a poche settimane fa, ma ora – in una delle proverbiali giravolte della storia – rischiano di marchiare come pietre miliari l’avvio di una guerra non ancora dichiarata ma ogni giorno più verosimile fra la Russia di Vladimir Putin e il disorientato agglomerato di nazioni che un tempo avremmo chiamato "blocco atlantico". Paesi e governi che ora navigano nel vasto mare dell’incertezza separati e divisi da interessi economici contrapposti, dall’epidermica paura di una guerra guerreggiata (che non scongiura alcun conflitto) e soprattutto da una perniciosa eclissi della memoria, la stessa che ieri – a cento anni esatti dallo scoppio della Prima guerra mondiale – faceva dire al presidente della Commissione europea Barroso: «Alcuni dei nostri vecchi demoni si stanno risvegliando. Nella primavera del 1914 un’Europa prospera, colta, potente, con legami economici stretti, viveva un periodo di pace eccezionale. Una guerra sembrava inimmaginabile. Eppure, un attentato terroristico ha provocato l’autodistruzione dell’Europa, dividendo popoli che tanto avevano in comune».

Il nazionalismo, spiegava Barroso, è stato all’origine di quella guerra spaventosa. Ed è proprio del nazionalismo di Putin che dobbiamo imparare ad avere timore. Dobbiamo diffidare della strisciante riesumazione in chiave favolistica dell’identità russa – rappresentazione di una koiné panslava non poi così dissimile da quel Blut und Boden (sangue e suolo) che forgiò il pangermanesimo ottocentesco, ma neppure, siamo onesti, dall’assolutamente simmetrico nazionalismo ucraino, incardinato su lingua e tradizione dal grande poeta nazionale Taras Ševcenko.

Dobbiamo temere tutto ciò, e nel contempo dobbiamo rabbrividire di fronte alla scelleratezza dei nuovi dirigenti di Kiev, che giusto un mese fa meditavano – con le conseguenze che facilmente si possono immaginare – di revocare al russo lo status di seconda lingua nelle regioni orientali del Paese dove l’etnia russofona è predominante. Le stesse regioni che ora s’infiammano di rivolta, applaudono alle milizie fantasma mandate da Mosca che s’impadroniscono di caserme, arsenali, posti di polizia, palazzi del governo, che proclamano in un tripudio di bandiere bianche rosse e blu la nascita di improbabili ma ben sempre inquietanti "repubbliche popolari autonome", a Odessa, a Kharkiv, a Donetsk.Settant’anni di pace ininterrotta in Europa – non quella perpetua teorizzata da Kant, ma sette decadi senza conflitti fratricidi abbracciano quasi tre generazioni – ci hanno probabilmente fornito l’ingannevole convinzione che l’idea di guerra nelle democrazie mature appartenesse esclusivamente al passato, che i conflitti armati fossero di pertinenza di società e nazioni rimaste indietro nella scala evolutiva della civiltà e che l’uso della forza fosse riservato agli interventi umanitari o alle operazioni di regime change sotto l’egida delle Nazioni Unite. Niente di più falso: la guerra, quella vera, è potenzialmente alle porte d’Europa. Guerra civile, per cominciare, fra due Ucraine divise e inconciliabili. E, appena defilata, la minaccia di un’altra guerra, quella sul cui precario punto di equilibrio abbiamo convissuto per quasi cinquant’anni.

Duole dirlo, ma c’è una palpabile e sconsolante verità dietro le accuse reciproche che Mosca e l’Occidente si scambiano: la verità è che nessuno sa come fermare Putin, nessuno sa dire fino a dove può arrivare, nessun presidente americano – non Bill Clinton, non George W.Bush, non certo Barack Obama – è mai riuscito a penetrare il cuore gelido dell’ex agente del Kgb, ossessionato da quella che egli stesso ha definito «la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». La caduta, cioè, dell’impero sovietico. Del quale, un passo dietro l’altro, sta ostentatamente cercando di ricomporre i pezzi. E i pezzi del quale ora rischiano di franare addosso a lui, ai capi del (non)fronte opposto e, soprattutto, a un’Europa irresoluta e come immemore.

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