venerdì 13 dicembre 2013
L’area del populismo si va pericolosamente allargando e non può essere sottovalutata Serve responsabilità.
di Mauro Magatti
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La protesta di questi giorni è un fenomeno dalle molte sfaccettature, che va analizzato e capito. In primo luogo, si tratta di un movimento che ha coinvolto gruppi sociali diversi: agli autotrasportatori si sono uniti lavoratori autonomi, disoccupati, studenti. Cioè quell’insieme variegato che ruota attorno all’ampia fascia di disagio sociale oggi presente nel Paese. In secondo luogo, è un fenomeno nazionale.
 
La protesta si è articolata in diverse città, dal Nord al Sud. Anzi, sono proprio alcune delle regioni meridionali a essere state maggiormente interessate. Un fatto inusuale, che non va sottovalutato. In terzo luogo, lo strumento di protesta, che non è il classico corteo che si conclude con un comizio o lo sciopero, ma il blocco delle reti di comunicazione (strade e ferrovie): non solo per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche per aggregare altre persone e aumentare il livello di tensione sociale. Infine, il ruolo dei social network: molti protestatari hanno saputo di quanto stava accadendo e sono scesi in piazza grazie a telefoni e computer, via Facebook o Twitter. Secondo un modello di mobilitazione istantanea che ormai caratterizza la protesta sociale contemporanea.
 
Certamente, come ha detto il premier Enrico Letta, chi protesta non rappresenta tutto il Paese. E tuttavia, si tratta di un fenomeno che non va sottovalutato: dopo cinque anni di crisi economica, il disagio sociale ha raggiunto i livelli di guardia. Consumata buona parte della ricchezza accumulata nei decenni precedenti, un’ampia parte della popolazione comincia a non farcela più: con i giovani che non riescono a entrare nel mercato del lavoro e i padri che hanno una occupazione sempre più precaria – soprattutto quei milioni di lavoratori autonomi che tanta importanza hanno nell’economia italiana – la situazione si va ingarbugliando.
Questo grave stato di difficoltà si incista sulla crisi della rappresentanza sociale e partitica. Molte delle persone che stanno protestando non si sentono rappresentate da nessuno. Vuoi perché sono parte di quella ampia quota di popolazione che in Italia non è garantita; vuoi perché le associazioni della rappresentanza sociale, troppo corporative e burocratizzate, faticano ad ascoltare e incanalare verso le istituzioni le istanze sociali latenti. Ciò apre un varco dentro cui fenomeni come quelli di questi giorni hanno la possibilità di svilupparsi. La crisi della rappresentanza non riguarda solo la politica.Per quanto riguarda i partiti, il discorso è più complesso.
 
Personalmente concordo con chi ritiene che il declino storico dell’Italia abbia a che fare con il fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica. E che la distanza tra il Paese reale e il Paese formale sia una tendenza andata rafforzandosi nel corso di molti anni. Una distanza che, col tempo, ha sviluppato una fortissima carica antistituzionale. Gridare allo sfascio – che, certo, è stata una reazione all’immobilismo della politica – è stato un gioco praticato da molti.
 
Così, nel sistema politico abbiamo oggi due dinamiche tra loro molto diverse ma che rischiano di sommarsi. Da un lato ci sono forze politiche che, in modo differente, ammiccano a quanto sta accadendo nelle strade e nelle piazze del Paese. A partire da una considerazione inoppugnabile – nel Paese c’è un forte disagio che deve essere ascoltato e preso sul serio – c’è chi cerca di trarre un immediato profitto politico.
 
Nel caso di Beppe Grillo in modo spregiudicato e pericoloso: è il non distinguere tra le ragioni della protesta e l’uso della violenza il discrimine che il M5S in questi giorni ha incautamente superato. Nel caso di Forza Italia, con più attenzione e furbizia: i segnali distensivi nei confronti dei "protestanti" lanciati da esponenti di primo piano – come Silvio Berlusconi e Daniela Santanché – rivelano pur tuttavia un chiaro intento politico. La sinistra appare lontanissima dall’humus sociale che fa da retroterra a quanto accade in questi giorni.
 
La cosa è rilevante e, per taluni aspetti, preoccupante. Da tempo, le forze di sinistra hanno molto allentato il contatto con gli strati più popolari della società italiana. Vuoi perché questi strati sono profondamente cambiati e non hanno ormai più alcuna lontana parentela con quella che una volta si chiamava classe operaia. Vuoi perché quei partiti hanno visto modificare la loro base sociale e i loro gruppi dirigenti, spostandosi verso il ceto medio istruito e tendenzialmente garantito.
 
Scoprendosi, per così dire, proprio sul versante popolare. Un processo che trova nell’elezione di Renzi una ulteriore accentuazione: se il Pd si sposta al centro, si amplia lo spazio per la sinistra più spinta – che però al momento è molto debole – e, di conseguenza, per la destra radicale. I movimenti di questi giorni sembrano andarsi a collocare in questo pericoloso vuoto che si va creando nel nostro sistema politico. Un vuoto che nei prossimi mesi diversi soggetti cercheranno di occupare. In questo contesto, vanno prese sul serio le dichiarazioni di Alfano sui rischi di una esplosione della violenza: infiltrare provocatori con l’obiettivo di accendere ancora di più gli animi è qualcosa a cui qualcuno può pensare. In realtà, i fatti di questi giorni ci dicono che il Paese è a un punto di svolta. La crisi arriva a mordere la carne delle famiglie e delle comunità. Il sistema della rappresentanza sociale è sclerotico. Quello politico è nel mezzo di una profonda trasformazione. Il governo – con l’autorevole sostegno del presidente della Repubblica – cerca di tenere il punto, facendo tutto quello che si può fare per guardare avanti. Il momento è critico e quanto sta accadendo nelle piazze lo dice con grande chiarezza.
 
Nessuno può pensare di risolvere i problemi che abbiamo di fronte nel giro di pochi mesi. Fermare il declino e rilanciare l’Italia, assorbire la disoccupazione che si è creata in questi anni, superare la crisi istituzionale e quella morale sono obiettivi che hanno bisogno di uomini, di tempo, di alleanze. Di saggezza e di competenza. L’area del populismo si va pericolosamente allargando e non può essere  sottovalutata. Anche perché sappiamo che in Italia le ali estreme – tanto a destra quanto a sinistra – sono state storicamente pericolose. Da qui la necessità di un impegno serio e concreto di tutte le forze responsabili per superare questa difficile fase. Un impegno che il governo Letta sta cercando di perseguire, ma che ha bisogno di nuovi slanci. E questo, ora, nel quadro che si è venuto a creare in queste settimane – con Alfano da una parte e Renzi dall’altra –, è obiettivamente più facile. A condizione che tutti esercitino fino in fondo il senso di responsabilità.
Si annuncia un 2014 molto delicato ma anche molto importante: il governo è nelle condizioni per impostare la prima fase del rilancio economico e istituzionale. Utilizzando al meglio il semestre di presidenza europea, nel quale occorrerà avere la forza politica per cambiare l’approccio della Ue alla crescita economica. Nel frattempo, le forze politiche potranno avere il tempo per riorganizzarsi e preparare seriamente la loro offerta politica per la prossima legislatura nella quale, grazie alla legge elettorale che da anni aspettiamo, speriamo di avere un governo solido capace di durare cinque anni. Che è un arco di tempo minimo per rimettere in cammino il Paese e tornare a guardare con speranza al nostro futuro.
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