mercoledì 15 maggio 2013
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L’ordine degli affetti, dei sentimenti, delle emozioni è potente e coinvolgente. Anche se non è del tutto vero, come dice Dante, che «Amor ch’a nullo amato amar perdona» è pur vero che quando la commozione si unisce alla compassione (cioè al sentire insieme, al patire assieme) la necessaria freddezza del giudizio – soprattutto del giudizio morale – si altera e si deforma. È per questo che di fronte a un atto di eutanasia, a un vero e proprio omicidio “pietoso” restiamo turbati, senza parole, a volte sconvolti. Ed è per questo che il più delle volte giustifichiamo, nei confronti di chi abbia ucciso “per pietà”, sentenze mitissime e al limite sentenze indebitamente assolutorie: sono questi i casi in cui percepiamo tutti i limiti del diritto e in particolare quelli del diritto penale.Oggi, però, il discorso sull’eutanasia si è completamente trasformato. Gli omicidi “pietosi”, cioè i veri e propri omicidi eutanasici, sono diventati sempre più rari e forse sono scomparsi del tutto. La medicina palliativa, anche se non è in grado di guarire chi sia colpito da malattie che non danno speranza, riesce però a rendere accettabile la vita dei malati terminali, liberandoli dalle sofferenze più acute e insopportabili. È per questo che nessun medico è ormai più destinatario di richieste di morte da parte di pazienti giunti alla fine della loro vita. La medicina palliativa ha definitivamente confermato che, se continuano a esistere malati inguaribili, non esistono più malati incurabili: di ogni malato ci si può prendere cura e a ogni malato può essere garantita una morte dignitosa.Possiamo allora concludere, come scrisse anni fa una bioeticista francese, che «l’eutanasia è sorpassata»? No. Il posto dell’omicidio pietoso è stato occupato da un’altra e ben più subdola forma di eutanasia, cioè dal suicidio assistito. Il posto della pietà, motivatrice emozionale dell’azione eutanasica, è stato preso da un motivatore che non ha nulla di compassionevole e di emotivo, ma che è freddamente razionale: il rispetto, al limite dell’ossequio, nei confronti della volontà suicidaria del paziente. Dietro l’eutanasia compassionevole si agitava lo spettro della sofferenza del malato. Dietro l’eutanasia, come aiuto al suicidio, si agita lo spettro di un preteso nuovo, sommo, insindacabile diritto umano, quello all’autodeterminazione: un diritto che andrebbe riconosciuto – e garantito – a prescindere da ogni contestualizzazione. I casi si stanno moltiplicando: il primo a verificarsi, alcuni anni fa, fu in Olanda, quando alla procedura eutanasica legalizzata venne ammesso un anziano ex–senatore ultraottantenne, colpito dagli acciacchi tipici dell’età, ma per il resto privo di qualsiasi patologia particolarmente dolorosa e meno che mai mortale. Il caso si sta ripetendo oggi in Svizzera.Il Paese elvetico non ha una specifica legge sulla fine della vita umana, ma da più di un secolo applica sommessamente le direttive dell’Accademia di Medicina, che ritiene deontologicamente non criticabile (e quindi giuridicamente non punibile) chi favorisca il suicidio di un paziente terminale che chieda di essere aiutato a morire. Condizione essenziale è che l’«operatore» non sia mosso da intenzioni di lucro, ma questo punto è in realtà più proclamato che rispettato, dato che – ahimè – esistono casi di pazienti che hanno lasciato i loro beni in eredità ai medici che li hanno aiutati a morire. Ma ecco che una signora di Zurigo, un’anziana come tante altre anziane, si vede rifiutare l’aiuto al suicidio, poiché non colpita da alcuna malattia terminale. La signora ricorre invano ai giudici del suo Paese e si rivolge quindi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. La Corte sentenzia in modo pesante, rilevando che la Svizzera è priva di una legge sull’eutanasia, che ne determini i criteri di praticabilità: verrebbe in tal modo violato il diritto al rispetto della vita privata, riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani. Anche se la sentenza della Corte non è definitiva, è ormai evidente in che direzione essa si muova: bisogna burocratizzare la fine della vita umana, sottrarla del tutto alla logica della compassione e delle emozioni, stabilire con precisione metodi e procedure, garantire alle persone la certezza che il loro desiderio di morire sarà considerato insindacabile e verrà pienamente rispettato.Siamo a questo punto. Il “mondo della vita” dovrebbe essere sottratto alla logica dei valori e dei sentimenti ed essere gestito direttamente ed esclusivamente dalla legge (ovviamente da una legge democraticamente rispettosa dell’autodeterminazione), perché la legge, come ci spiegava Aristotele, è «ragione senza passione». Quello però che Aristotele sapeva e che certi giudici sembra che non riescano più a capire è che la legge ha il suo giusto spazio solo nell’orizzonte pubblico della città: le dimensioni della “nuda vita” non sono riducibili a dinamiche biologiche, ma hanno un carattere spirituale e personale; la nascita, l’educazione, la costruzione di una nuova famiglia, la cura dei malati e degli anziani, e soprattutto la morte, non sono dimensioni pubbliche, ma private, e perciò vanno affidate alla logica “calda” della venerazione, del rispetto, delle tradizioni religiose e valoriali e non a quella “fredda” delle procedure burocratico-normative. È necessario che certi giudici europei riaprano gli occhi: è dal mondo della vita e non da quello delle norme che bisogna ripartire se non si vuole disumanizzare definitivamente il nostro nascere e il nostro morire, invocando a vanvera i diritti dell’uomo.
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