venerdì 4 aprile 2014
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La politica macroeconomica, nell’era della globalizzazione, richiede una guida tempestiva in grado di adeguare a un terreno in continua evoluzione le politiche fiscali, monetarie e di cambio. La farraginosità del sistema di governo dell’Unione Europea rende il compito molto difficile, affidandolo alla supplenza di funzionari che guidano la "macchina" guardando solo dallo specchietto retrovisore dell’applicazione delle rigide regole previste dai Trattati.Il presidente della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi, ha sinora supplito con maestria a questi limiti, agendo tra le righe e salvando di fatto l’euro. Nelle sue dichiarazioni di ieri un elemento nuovo e parzialmente positivo riguarda l’annunciata disponibilità della Bce a utilizzare «misure non convenzionali» per una politica monetaria più espansiva. Purtroppo però dire «faremo tutto quello che sarà necessario», ma poi non farlo, non è proprio più sufficiente. Ciò che, oggi, abbiamo di fronte, non è un attacco speculativo all’euro, ma la deflazione, la diminuzione del livello generale dei prezzi, che per essere risolta richiede un’azione, non una promessa di agire.Già da qualche tempo andiamo sottolineando sui queste pagine i pericoli della cosiddetta "via spagnola". Il problema dei Paesi del Sud Europa (e più in genere di tutta l’area euro) in questa fase è la grave debolezza della domanda interna. La terapia che viene suggerita è però quella "mercantilista" del recupero di competitività attraverso la riduzione del costo del lavoro e dei salari. Ora, poiché il problema non sono le esportazioni (che vanno benissimo), ma il restante 80-90% dell’economia, che dipende dal mercato interno, la terapia utilizzata finisce per aggravare la malattia in quanto indebolisce ulteriormente una domanda interna anemica. In pratica le imprese senza domanda non vendono, rinunciano a investimenti che potrebbero aumentarne la produttività o addirittura chiudono bottega, mentre i giovani e i disoccupati non investono nel loro futuro, aggravando ancor più il deficit di capitale umano del nostro Paese.Le politiche monetarie non abbastanza coraggiose della Bce, unite a un sistema bancario che non ha alcun interesse ad allargare i cordoni del credito, producono vincoli creditizi e tendenza alla deflazione mentre oltreoceano gli Stati Uniti usano la leva della svalutazione del dollaro (Draghi, ieri, ha confermato che la Bce osserva i cambi e non interviene, per la gioia di americani e giapponesi) e attingono ampiamente al dividendo monetario della globalizzazione stampando più moneta e combattendo esplicitamente con essa la disoccupazione.È un dato di fatto che all’indomani della crisi nel 2009 il nostro tasso di disoccupazione era attorno al 7,9% e negli Usa al 9,3%, mentre oggi noi siamo al 13% e gli Usa al 7%. Quanto ai rischi di deflazione, i numeri parlano chiaro: l’Italia ha un tasso di inflazione dello 0,4%, l’Unione Europea dello 0,5%, mentre la Spagna ha un dato che, annualizzato, implicherebbe una riduzione dello 0,2% dei prezzi. Su queste basi il Fiscal Compact, oltre a essere insensato, diventa insostenibile. Perché i patti possano essere rispettati è necessario avere una somma di crescita più inflazione superiore al 3%.Ma con un’inflazione vicina allo zero il traguardo diventa molto difficile e il «patto finanziario» è destinato a saltare perché la Bce non sta rispettando il suo mandato che prevede un obiettivo di inflazione vicino al 2%. Forse un giorno la commissione Ue si accorgerà che il suo calcolo prospettico del rapporto debito/Pil si fonda su aspettative di inflazione largamente generose e superiori ai dati sopra riportati. E le correggerà al ribasso peggiorando ancor più la situazione.La richiesta da avanzare ai nostri leader politici è di superare queste assurdità. L’Ue intera ha bisogno, se vuole sopravvivere, di tassi di cambio euro/dollaro più sostenibili, di una politica monetaria espansiva sullo stile della Federal Reserve americana, di un Piano Marshall fiscale europeo, di una riforma radicale della finanza. E di regole sul commercio internazionale in grado di premiare le filiere socialmente e ambientalmente sostenibili per rendere la globalizzazione un meccanismo che produce una convergenza verso l’alto e non verso il basso in tema di rispetto per l’ambiente e di diritti del lavoro. Se questo non accadrà, anche il nuovo governo rischia di essere travolto come gli altri. Essendo semplicemente italiani, senza secondi fini o carriere da costruire sui fallimenti altrui, speriamo in un lieto fine per il bene di tutti e del nostro Paese.
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