sabato 17 dicembre 2011
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Grande successo di un film muto, in queste settimane. È l’evento culturale del momento. Dunque abbiamo bisogno di silenzio?, si chiedono i giornali. Ma la civiltà dei consumi non è anche una civiltà dei rumori? Per avere il silenzio, non dobbiamo noi uscire dalla nostra civiltà ed entrare nelle oasi di civiltà 'altra', le abbazie, i monasteri, e interrogare i grandi mistici? È rimasto qualcosa di elitario in noi, quando vogliamo godere dell’arte: che sia quadro o film, abbiamo bisogno di spazio, di comodità, di solitudine. Ci pare che chi è piazzato meglio possa vedere meglio e capire meglio. Dunque prenotiamo il posto, per i grandi film. Vogliamo i posti centrali della fila più comoda. Sorpresa: sono già prenotati. Ripieghiamo sulla seconda scelta. Ma prenotare i posti vuol dire volere una visione privilegiata, e dunque ci sono altri che hanno lo stesso desiderio, per questo film? Sì, è così. I film d’arte scremano il pubblico, ed è una sorpresa vedere che la sala si riempie.Il film è The Artist, ed è in bianco e nero. Comincia col protagonista che urla, ma non lo senti. Urla perché lo torturano, vogliono che parli, nel senso che pronunci una parola, almeno una, ma lui resiste, si lascia strappare la coscienza, sviene, lo buttano in una cella come un fagotto. Sta recitando in un teatro, e il pubblico è con lui: il pubblico del muto non vuole parole, vuole capire, e per farsi capire le parole non sono necessarie. È questo il punto per il quale qualche giornale ha citato un grande film di qualche anno fa sulla comunicazione senza parole, un capolavoro assoluto (se qualcuno l’ha perso lo recuperi), Il grande silenzio. Ma non c’è un parallelo, son due silenzi diversi. The Artist usa il silenzio tecnico, rifiuta i rumori della tecnica, è un film muto sul cinema muto, e l’artista che lo interpreta non ha bisogno di tecniche sonore perché con la mimica esprime già tutto il suo mondo.Il film è, per tre quarti, una parabola sulla successione delle generazioni nell’arte, quando il nuovo stile soppianta il precedente. Il protagonista di The Artist però ha aiutato un’attrice, che ora è la star della nuova arte e lo aiuta a rinascere portandolo con sé, a raccogliere successi nel film sonoro. È un happy end assurdo: nella storia, la nuova corrente mangia la vecchia, la storia è una successione di generazioni cannibaliche. Anche la storia politica: ogni rivoluzione ingoia perfino i propri padri. Il film si gode per quel che è, non per il messaggio che porta. È un film sul cinema muto, non sul silenzio. Eppure, la gente corre a vederlo, perché c’è una magia nel silenzio. Vuol dire che soffre di un eccesso di comunicazione, e l’eccesso non comunica più, ma nasconde. Calato in mezzo al pubblico ammutolito, pensavo per un attimo alla prima ora di analisi: colui che va in analisi è angosciato dal silenzio. «Cosa vogliono da noi? Parole? – protestava Lacan –. Ma ne possono avere quante vogliono, fuori di qui». Il silenzio fa paura. Il rumore protegge. Nel silenzio sei indifeso, come nel Giudizio Universale. Nel silenzio ascolti. Il silenzio fa sapere che c’è, ma non ama mostrarsi. I monaci certosini della Grande Chartreuse, nelle Alpi francesi, hanno fatto aspettare 19 anni il regista che voleva riprendere sprazzi delle loro giornate, e ne è nato il documentario Il grande silenzio, che non è muto, ma silenzioso: è un luogo a parte, in un tempo a parte, luogo e tempo così solenni che dalle parole verrebbero sminuiti. «Si logora ogni parola – dice l’ Ecclesiaste – di più non puoi farle dire». Si logora per l’uso. Chi è stato ospite di un monastero, al ritorno scopre il suono e il peso delle parole, come se le usasse per la prima volta. È il silenzio che le potenzia.
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