sabato 13 settembre 2014
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L’ormai ex presidente della Ferrari, Luca Cordero di Montezemolo, si può "consolare" per l’addio alla casa di Maranello con una buonuscita – centesimo più, centesimo meno – di 27 milioni di euro. È solo l’ultimo degli esempi, che non fanno nemmeno più scandalo, della forbice tra i guadagni dell’uomo della strada e quelli cui arrivano i top manager. Come è ormai noto Richard Fudd, l’amministratore delegato della Lehman Brothers, l’anno prima del fallimento della banca d’affari aveva guadagnato una somma che un insegnante di scuola avrebbe potuto mettere insieme solo se avesse incominciato a lavorare 4.000 anni prima, ovvero dall’età dei Sumeri. Eppure è evidente che la differenza nella creazione di valore umano ed economico di Richard Fudd e del nostro insegnante avrebbe giustificato un’inversione dei compensi. Proviamo allora a riflettere "laicamente" sul problema senza farci prendere da pulsioni egualitariste o giustizialiste. Gli studi sul rapporto tra diseguaglianza e felicità indicano chiaramente che in periodi di crisi la gente comune è molto meno disposta a tollerare le diseguaglianze. Se la nave va e i padroni del vapore portano benefici a tutti (anche se briciole), nessuno va troppo per il sottile sui loro compensi milionari. Ma quando le cose vanno male l’attenzione sale e le critiche aumentano. Le cose apparentemente misteriose, dato che ci troviamo in un momento di questo tipo, sono a parere di chi scrive almeno tre. Primo (e lo dico da "non politico"): perché l’opinione pubblica si accapiglia e si scaglia inesorabilmente contro politici e dirigenti pubblici che ricevono cifre molto, ma molto inferiori a quelle di un Montezemolo, dedicandosi tra l’altro (quando lo fanno come si deve) al nobile compito di lavorare per il bene della collettività? Perché discutere di questioni risibili come l’uso di "auto blu" da casa al posto di lavoro o far finta di non sapere che i costi dei loro emolumenti saranno suddivisi sulla fiscalità di un’intero Paese, riducendo significativamente il contributo di ciascun contribuente? Secondo: perché lo stesso zelo critico verso certi emolumenti non lo troviamo nei piccoli azionisti di grandi società per somme infinitamente più elevate che escono direttamente dalle tasche e dai guadagni azionari di un gruppo molto più ristretto di persone, incidendo dunque in misura largamente superiore sui loro bilanci? Terzo: perché i manager privati intascano somme di denaro (almeno in apparenza) largamente sovradimensionate rispetto al loro contributo produttivo? Le risposte sono diverse. In primo luogo, i canali di voce, partecipazione e azione della collettività nei confronti della politica sono storicamente e tradizionalmente molto più numerosi e battuti di quelli a disposizione dei piccoli azionisti. Secondo, i mass media hanno suonato la grancassa degli "sprechi della politica" (che indubbiamente ci sono anche) e le masse hanno preso a marciare compatte, allineate e coperte in quella direzione senza porsi troppi interrogativi sulle vere cause della crisi che stiamo vivendo. Terzo, si continua a sostenere che se non pagassimo il massimo per i manager non riusciremmo ad attrarre i migliori. Peccato che gli studi di psicologia dimostrino che guadagni esagerati possono produrre deliri di onnipotenza e dunque retroagire negativamente sulla produttività in azienda (non è ovviamente il caso di Montezemolo, dato che nel suo caso stiamo parlando di una buonuscita). A partire da qui potremmo aprire il capitolo, ancora più delicato, degli stipendi dei manager nelle grandi società finanziarie. Fulminante, da questo punto di vista, una battuta del noto film "Inside Job", dove una gola profonda parla del megastipendio di un trader che «fino a qualche anno fa arrotondava lo stipendio facendo il guardamacchine di notte, adesso guadagna decine di milioni l’anno. E la cosa più grave è che pensa che sia tutto merito suo». Il problema, in realtà, è molto serio. Tutti gli studi sulla crisi finanziaria mondiale indicano che una delle cause scatenanti è stata proprio quella delle paghe di manager e trader e della quota esorbitante della componente variabile dei loro compensi. Queste, combinate con le buonuscite miliardarie, spingono ad assumere profili di rischio eccessivi (in sostanza: se va bene c’è il bonus, se va male c’è la buonuscita) che mettono a rischio la sopravvivenza stessa delle loro organizzazioni. Stiamo parlando di una delle cause più profonde della crisi finanziaria globale, cui abbiamo solo parzialmente messo mano (si veda a questo proposito la riforma degli stipendi di manager e trader varata dal governatore Carney della Banca Centrale d’Inghilterra). La colpa di tutto questo ? Non certo di Montezemolo, ma soltanto nostra. Se il "popolo bue" e il "parco buoi" degli azionisti sommano la loro passività, i muggiti salgono alle stelle.
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