sabato 28 marzo 2015
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Ma lo Stato è davvero in grado di autoriformarsi? E quando, come in questa stagione, l’attività di governo è particolarmente feconda di innovazioni, la pubblica amministrazione tiene il passo del cambiamento? E risulta credibile nell’imporre profonde trasformazioni ad aziende e lavoratori privati?Sono interrogativi che sorgono spontanei pensando alla vicenda, davvero emblematica, della società Italia Lavoro e di quanto sta avvenendo dopo l’approvazione del Jobs act. L’agenzia tecnica che dipende interamente dal ministero del Lavoro, infatti, ha una struttura organica piuttosto particolare: 400 dipendenti a tempo indeterminato, 180 a termine e ben 794 collaboratori a progetto. Questi ultimi da martedì si troveranno senza lavoro per la scadenza dei loro contratti. Poteva essere l’occasione per applicare fino in fondo quanto previsto dalla riforma del lavoro, assumendoli con il contratto a tutele crescenti. Se non che Italia Lavoro rientra nell’elenco delle società controllate dallo Stato che non possono procedere a incrementi dell’organico, oltretutto di così vasta portata. I contratti a progetto non sarebbero più rinnovabili, come prevede il decreto sul riassetto delle forme contrattuali approvato dal governo il 20 febbraio. Ma, approfittando del fatto che la norma non è stata ancora trasmessa alle Camere per il parere e quindi non è ancora entrata in vigore in via definitiva, la società sta correndo contro il tempo per varare entro martedì le prime 700 vacancy (offerte di lavoro) con altri contratti a progetto, alle quali i "vecchi collaboratori", alcuni in forza da decenni, potranno concorrere. Già questo passaggio la dice lunga rispetto agli interrogativi posti all’inizio. Ma non si tratta solo di questo.È, infatti, la posizione al riguardo del Ministero del Lavoro a risultare contraddittoria. Secondo il segretario generale, infatti, se anche si fosse trovata una scappatoia normativa per poter procedere con le assunzioni a tempo indeterminato, queste non sarebbero state giustificate perché, ha dichiarato a Repubblica, «l’ente effettivamente opera su progetti» (per la gran parte finanziati dall’Unione Europea). Dunque, ammette lo stesso Ministero esiste effettivamente una tipologia di lavoro «a progetto» che si svolge in maniera differente rispetto al normale rapporto di lavoro subordinato. E allora come si giustifica la cancellazione di questa forma contrattuale operata con il Jobs act (salvo poche eccezioni contrattualizzate, come quelle dei call center)?E ancora, il Ministero è così certo che, una volta proseguite le collaborazioni, queste non si concretizzino in «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro», come stabilisce il Jobs act per definire quelle che vanno obbligatoriamente ricondotte a contratti a tempo indeterminato? Un’auto-verifica degli ispettori del lavoro potrebbe riservare sorprese. Per questo la vicenda di Italia Lavoro è altamente emblematica. Ma non è certo il solo caso in cui emerge l’«eccezione statale», cioè questa tendenza dello Stato a sottrarsi per primo al cambiamento. Basti pensare che, dopo tanti tira e molla, il Governo ha deciso di non applicare il Jobs act al pubblico impiego. Così come in passato non fu applicata la legge Biagi. E ancora si potrebbero ricordare le norme sulla sicurezza degli edifici imposte subito alle scuole paritarie e a lungo prorogate nella loro benefica (e costosa) applicazione per quelle statali o la lentezza con cui sono state rese omogenee le norme previdenziali tra lavoratori pubblici e privati. C’è però un ultimo aspetto che riguarda, oltre alla capacità di cambiamento, la sua efficacia. Il Jobs act, infatti, prevede giustamente il ridisegno delle politiche attive del lavoro, con il rafforzamento dei centri per l’impiego e la creazione di una cabina di regia nazionale per evitare, come accade oggi, che ci siano 20 modalità diverse, tante quante sono le Regioni, di affrontare i nodi della disoccupazione. Per procedere con tutto questo riassetto, necessario a non lasciare soli i disoccupati nel "mercato del lavoro", occorre però attendere che vadano in porto le riforme istituzionali, in particolare quella sul Titolo V e siano "sistemati" i dipendenti delle Province. Proprio Italia Lavoro dovrebbe essere, assieme ad altre agenzie pubbliche, il perno del nuovo sistema. E qui il cerchio si chiude. Ma rischia di non essere affatto un circolo virtuoso per l’occupazione e per il Paese. Una buona legge, insomma, rischia di restare monca.
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