sabato 10 marzo 2012
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Trigoria, periferia sud della capitale, il 'tempio' laico della Roma calcistica. Fuori, nel viale sotto i pini marittimi, stazionano tifosi di ogni età, appostati nella sola speranza di vedere il profilo di un campione attraverso i vetri delle belle auto che talora varcano il cancello. Lo stesso cancello che mercoledì scorso si è aperto per lasciar passare Massimiliano Tresoldi, 40 anni, sulla sua quattro ruote: la carrozzella spinta da mamma Lucrezia e papà Ernesto. Ad accoglierlo, con l’affetto del padrone di casa, Bruno Conti, bandiera delle glorie romaniste e oggi responsabile del settore giovanile giallorosso. Per un giorno Trigoria sarà tutta per lui e i campioni sono stati avvertiti: finiti gli allenamenti, una rapida doccia e tutti da Max. Le mezzore passano ma a lui sembrano minuti. «Ciao Bruno», guizza bianco il sorriso di Enrique, il mister di ritorno dal campo, «Ciao Luis», segno che presto arriveranno «i ragazzi», quei campioni che lì, fuori dal televisore e dentro la vita, ti appaiono proprio così, dei ragazzi. E Massimiliano, sempre seduto su quello che oggi gli pare un trono, li «riceve» man mano che sono pronti, uno per uno, prima Taddei, il biondo brasiliano, poi Osvaldo, l’argentino chiamato Simba come il figlio del Re Leone, e ancora Borini, il terrore dei portieri... A nessuno Bruno Conti racconta che Max venti anni fa era un calciatore bello e sano come loro; che i suoi venti anni li aveva appena compiuti quando un incidente d’auto ha fermato il tempo precipitandolo in uno stato vegetativo a detta dei neurologi «irreversibile»; che infatti ha «dormito» per dieci anni senza dare segnali di vita, ma che poi si è svegliato facendosi un segno di croce; e che da quel giorno (altri dieci anni sono passati) conduce battaglie e le vince, imparando a muovere un passo o a pronunciare le prime parole. Non racconta tutto questo, Conti, presenta invece «il mio carissimo amico», e noi che Max lo conosciamo bene leggiamo nel suo viso arrossato l’emozione che straripa. L’ultimo ad arrivare è Francesco Totti, lampo azzurro negli occhi e sorriso da gladiatore sornione: Massimiliano dimentica improvvisamente le lesioni al cervello e la metà paralizzata del suo corpo, l’atleta ora è lui e per guardare in faccia il campione tiene alta la testa da solo, senza la mano della madre sulla fronte... Se avesse parole non esprimerebbe meglio l’enormità del regalo che sta ricevendo in questa giornata straordinaria. Una giornata iniziata venti anni fa a Milano quando, per il suo ventesimo compleanno, chiese quel viaggio a Trigoria. Poi, invece, l’incidente in autostrada al ritorno dal mare, e quei dieci lunghissimi anni di sonno profondo, «un tronco morto» dicevano i medici, un «senza speranza». E poi altri dieci anni per raccogliere le forze e infine richiedere di nuovo il suo viaggio a Trigoria, il regalo mai scordato. Con venti anni di ritardo l’altroieri arrivava. Che giri strani fa la vita, capace in un istante di scompigliare i nostri poveri piani, di gettare l’imprevisto nell’ordinato procedere dei giorni, di spegnere la luce per un attimo durato decenni e poi riprendere il suo corso come niente fosse, come se in mezzo non ci fosse stata la catastrofe...«Dove eravamo rimasti?», veniva da dire l’altroieri davanti a quella stretta di mano e alla gioia di Max, citando le stesse parole con cui Enzo Tortora tornò in tivù dopo l’arresto e anni di prigione da innocente: due catastrofi diverse, certo, ma la stessa consapevolezza di chi ormai la tempesta la conosce e, suo malgrado, è maestro di vita. Totti sorrideva a un suo tifoso, Max chiudeva un cerchio rimasto incompiuto. Il primo dotato da Dio del potere di far felice qualcuno solo con una foto scattata insieme, il secondo di un coraggio che non demorde, ore e ore ad allenarsi non per un podio ma per tornare ad alzarsi in piedi. Chi dei due stava facendo un regalo all’altro? Forse questo pensava Bruno Conti, gli occhi umidi, scuotendo la testa incredulo.
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