martedì 17 dicembre 2013
Si tratta di mettere mano a 1.000 atti che incidono sui rapporti di lavoro per 15.000 posizioni. di Michele Tiraboschi
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«In un mese la legge per semplificare le regole del lavoro». Netto e perentorio l’annuncio di Matteo Renzi alla assemblea nazionale del Partito Democratico. Un impegno che fa seguito alla promessa fatta da Enrico Letta di collocare l’emergenza lavoro al centro della agenda del Governo per il prossimo anno. Semplificare per creare nuova occupazione incentivando così le imprese ad assumere. Non è un caso, del resto, che Renzi parli di "Job Act", la legge del lavoro. Una espressione inglese utilizzata per esemplificare il significato più profondo di un progetto che deve risultare comprensibile a quegli investitori stranieri che diffidano del nostro Paese anche per l’incertezza e marcata inaffidabilità delle regole che governano i rapporti di lavoro in azienda.Non è la prima volta che se ne parla. Si può anzi dire che quello della semplificazione sia stato il vero l’obiettivo delle riforme del lavoro degli ultimi quindici anni. Un obiettivo regolarmente mancato e che, anzi, è sembrato via via allontanarsi a mano a mano che una nuova legge si aggiungeva al già complicato assetto normativo del diritto del lavoro italiano. Da ultimo la riforma Fornero: quattro articoli di legge, ridondanti però di densi e incomprensibili commi (oltre 300), che hanno aggravato molti degli storici problemi del nostro mercato del lavoro che pure intendeva risolvere. Eppure forte è la convinzione che questa possa essere la volta buona. Non solo tra i giuslavoristi e gli operatori economici. Anche la politica si è progressivamente appropriata di un tema un tempo affidato al solitario impegno progettuale del senatore Pietro Ichino. Non vi è partito politico che non condivida l’urgenza della semplificazione di un quadro regolatorio del lavoro che ha smesso di funzionare da tempo e che, paradossalmente, non soddisfa più nessuna delle due parti del rapporto di lavoro. Non i lavoratori che, pur in presenza di uno dei sindacati più forti e influenti d’Europa, si sentono oggi poco o nulla protetti. Non gli imprenditori che sono chiamati ad affrontare la sfida competitiva imposta dalla globalizzazione e dai nuovi mercati con una pesante zavorra di precetti legali e vincoli formalistici che niente hanno a che vedere con la tutela del lavoro.
Tutto facile dunque per un leader come Matteo Renzi che, su un tema di larghissimo consenso, si presenta come l’uomo giusto al momento giusto? Apparentemente sì come dimostra il canale di comunicazione privilegiato che è subito riuscito ad attivare, una volta eletto segretario del Pd, con il più ostico dei sindacati Italiani: quella Fiom di Maurizio Landini che sin qui, a detta di molti, ha rappresentato il vero fronte di conservazione nel travagliato processo di modernizzazione del nostro mercato del lavoro. Una mossa questa che non poco ha sorpreso e spiazzato quanti hanno seguito da vicino la più recente evoluzione del nostro sistema di relazioni industriali a livello aziendale. Come non ricordare, in proposito, lo sforzo di modernizzazione del modo di fare impresa in Italia di Sergio Marchionne che ha lungamente "flirtato" con Landini, snobbando inizialmente Cisl e Uil, prima di decidere che era solo tempo perso e che solo dalla rottamazione della Fiom, per usare un linguaggio caro a Renzi, avrebbe potuto nascere il progetto "Fabbrica Italia".Qualche dubbio è dunque lecito avanzare. Non tanto e non solo sulle tempistiche ipotizzate da Renzi che, invero, appaiono a dir poco ottimistiche. Non esistono stime ufficiali. E già questo la dice lunga su quanto sia complicato semplificare leggi e decreti sparsi nelle pieghe dell’ordinamento giuridico e che neppure gli esperti conoscono nella loro interezza. Secondo valutazioni approssimative del centro studi Adapt, che ha avviato un primissimo monitoraggio, si tratterebbe di mettere mano a circa 1.000 atti normativi che incidono, direttamente o indirettamente, sulla regolazione dei rapporti di lavoro per un numero approssimativo di oltre 15.000 precetti. L’estrema difficoltà del tema sta, piuttosto, nel fatto che in una materia complessa come quella del lavoro il processo di semplificazione non può essere affrontato con soluzioni semplicistiche pensate a tavolino da un manipolo più o meno qualificato di tecnocrati. Procedere in questa direzione, con l’ennesimo testo di legge calato dall’alto, non avrebbe altro effetto che comprimere ulteriormente il dinamismo e la multiforme realtà di un mercato del lavoro in continua evoluzione.
Il punto non è, a ben vedere, la quantità delle norme, quanto la loro qualità ed esigibilità. Per questa ragione un processo di vera semplificazione non potrà mai essere condotto in termini dirigisti e formalistici. Fondamentale semmai è il pieno e convinto coinvolgimento di tutti gli attori sociali, in chiave sussidiaria e pluralista, perché plurali e profondamente differenziati sono i contesti produttivi, i territori e i mercati del lavoro da regolare. Un esercizio questo che richiede non solo tempo, ma anche capacità di ascolto e mediazione e un forte rinvio alla contrattazione collettiva. La maggioranza di cui dispone Renzi è del resto quella del Governo Letta che, in sei mesi di estenuanti trattative, non è ancora riuscito a chiudere la partita, apparentemente semplice, sul contratto a termine per Expo 2015. Ciò a conferma della estrema difficoltà di scrivere norme sostenute da un largo consenso che è poi la vera premessa per disporre di norme effettive e realmente esigibili nella realtà dei contesti produttivi.
Non esistono alternative e cercare più o meno comode scorciatoie può essere molto pericoloso. Una di questa pare, a ben vedere, la ipotizzata intesa tra Landini e Renzi sulla legge in materia di rappresentanza sindacale. Tornare al monopolio legale della rappresentanza, affidata in via maggioritaria a un solo sindacato come avveniva in epoca corporativa, sarebbe in effetti una clamorosa sconfessione di quel metodo sussidiario che crede nel pluralismo e che esclude ogni tentativo di demolizione del sindacato quale passo obbligato per avviare la tanto attesa modernizzazione dei rapporto di lavoro. E lo sarebbe in primis per quello stesso sindacato che, nel chiedere oggi una legge sulla rappresentanza, dimentica le lezioni della storia e l’esperienza di altri Paesi. Nel fare esplodere le contraddizioni all’interno del mondo sindacale, una legge sindacale potrebbe in effetti diventare quel comodo grimaldello utile per avviare non tanto un processo di semplificazione quanto una vera e propria deregolazione del mercato del lavoro e con essa la rottamazione dello stesso sindacato.
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