lunedì 17 giugno 2013
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Non finirà mai di stupirci. Come sempre la complessità dell’Iran sfugge a tutti i tentativi occidentali di imbrigliarlo in facili schemi e sconfessa le nostre previsioni. Quattro anni fa, la più dinamica delle campagne elettorali aveva inaspettatamente rilanciato il movimento riformista; un’illusione svanita dopo i massicci brogli a favore dell’ultraradicale Mahmud Ahmadinejad e le terribili repressioni seguite alla proteste popolari. Ora, dopo una campagna elettorale spenta e prudente, con i vertici riformisti ancora incarcerati o silenziati, ci si aspettava un’altra massiccia alterazione dei risultati per favorire il prescelto dalla Guida suprema o per gonfiare i dati dei votanti, essendo data per certa un’altissima astensione. È successo invece il contrario: a milioni si sono recati a votare e hanno scelto a maggioranza il religioso moderato Hassan Rowhani, sostenuto con intelligente discrezione dagli ex presidenti Rafsanjani e Khatami (anch’essi esponenti del clero sciita). Il che non significa che egli sarà davvero il prossimo presidente della repubblica islamica: fino al 3 agosto – data in cui il rahbar Khamenei confermerà i risultati – sono possibili manovre, riconteggi e colpi di mano da parte dei movimenti più radicali del regime.Rowhani ha vinto intercettando i voti dei riformisti, i quali hanno preferito votare per un moderato pragmatico e ben conosciuto a livello internazionale – ha guidato per anni le trattative nucleari con l’Occidente – piuttosto che optare per una sterile astensione. Ma ciò non fa di lui un riformista alla Khatami. Né, come in fondo a noi piacerebbe, un "nemico" di Khamenei, del quale è stato segretario fino al 2005 e verso cui ha un rapporto di prudente e di formale deferenza. Non fosse stato così, del resto, non sarebbe mai stato ammesso alla competizione elettorale. Non sarà quindi Rowhani a prendere di petto Khamenei o i sempre più potenti pasdaran. Eppure il suo successo non solo è positivo perché porta alla presidenza un moderato pragmatico e tollerante, ma anche per le indicazioni che ci offre.La prima è che il popolo iraniano è allo stesso tempo più saggio e più determinato dei suoi pessimi governanti: ha deciso di votare e ha scelto il candidato che più di ogni altro rappresenta una richiesta di moderazione e cambiamento. La seconda indicazione è che forse Khamenei ha capito come il 2009 sia stato un errore che ha finito per indebolire la repubblica islamica: ha infatti snaturato i meccanismi di potere, rendendola troppo dipendente dai pasdaran, i quali stanno cercando di occupare ogni spazio politico, amministrativo ed economico. Il terzo messaggio è diretto proprio a questi ultimi: i candidati più forti sulla carta erano o ex comandanti dei pasdaran o a loro molto vicini, ma l’Iran ha mostrato di non volerli alla presidenza, perché il loro strapotere indispone molti. Non solo i riformisti, ma anche il potente ceto economico dei bazaari, tradizionalmente vicino al clero sciita e oggi indebolito dall’aggressività economica delle guardie della rivoluzione.L’ultimo messaggio della giornata di ieri colpisce al cuore uno degli stereotipi più abusati e insopportabili diffusi in Occidente, quello di "regime degli ayatollah". In questi mesi, infatti, sono stati in tre a lottare per evitare il peggio: Khatami, che ha tenuto assieme il fronte riformista, Rafsanjani, a cui è stato impedito di partecipare alle elezioni, e Rowhani. Tutti e tre sono religiosi, politici "col turbante". Ma è anche grazie a loro se possiamo guardare a Teheran con un filo di speranza in più.
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