sabato 16 maggio 2015
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In tanti abbiamo ancora negli occhi le immagini, trasmesse nei giorni iniziali di Expo, che mostravano alcuni italiani generosamente al lavoro nel padiglione nepalese, a fianco delle maestranze asiatiche, per garantirne la regolare apertura. Molti altri non hanno dimenticato lo sguardo dell’operaio nepalese, col tradizionale copricapo in testa, scelto per far parte del drappello di persone che hanno sfilato, il giorno dell’inaugurazione, in rappresentanza dell’immenso esercito di operai e tecnici che hanno contribuito alla realizzazione della grande kermesse milanese.Erano trascorsi, allora, solo pochi giorni dal terribile terremoto che il 25 aprile scorso ha squassato il tetto del mondo, mettendo letteralmente in ginocchio il piccolo Paese asiatico. Oggi, però, il cordoglio collettivo è svanito e il flusso di aiuti donati via sms sull’onda delle emozioni sta rallentando il passo. Forse che in Nepal la ferita si sta cicatrizzando? Nient’affatto. Come puntualmente accade, secondo una perversa legge della comunicazione (per la quale la normalità non fa notizia), il Nepal è quasi sparito da giornali, notiziari tv e siti internet. Restano, a presidiarlo, poche testate, fra cui questo giornale e alcune agenzie di stampa cattoliche specializzate. Ma là, in mezzo alle montagne più maestose e impervie del globo, la gente continua a soffrire. I soccorsi – come documentiamo nelle pagine interne – procedono fra mille difficoltà. E le recenti, nuove scosse di terremoto di pochi giorni fa hanno reso ancor più vulnerabile una popolazione già molto provata. Una popolazione la cui prima esigenza, in assoluto, è quella di avere la certezza che il resto del mondo non l’ha dimenticata, che l’opinione pubblica non ha archiviato il disastro del 25 aprile scorso come una fatalità cui arrendersi passivamente. Come se l’entità tremenda dell’accaduto (una scossa di proporzioni eccezionali, oltre 8.000 morti e 17 mila feriti) potesse essere un alibi per non spendersi, per non promuovere una convinta solidarietà.Ebbene. Domani avremo l’occasione di stringerci attorno alle mamme nepalesi, che ogni giorno – da 3 settimane a questa parte – si alzano domandandosi cosa daranno ai figli da mangiare. Domani ci è offerta una piccola, ma concreta, opportunità per ridare un briciolo di speranza allo sguardo dei tanti che si aggirano nei villaggi tagliati fuori dal mondo e, in particolare, ai bambini (l’Unicef parla di 1,7 milioni) in balìa di un futuro quanto mai incerto. La Chiesa italiana ha promosso una colletta straordinaria per il Nepal e la sua gente.Lo ha fatto ben sapendo che anche nel nostro Paese milioni di persone e di famiglie faticano ad arrivare alla fine del mese, per i motivi più diversi. Ma i cristiani sono fatti così: non possono chiudersi nel recinto dei loro problemi, lasciando il mondo fuori. Lo si è già visto in queste settimane: parrocchie, scuole, gruppi di volontariato si sono mobilitati, per raccogliere fondi o per inviare in Nepal vestiti dismessi o altro materiale utile.Come accadde oltre dieci anni fa, ai tempi del terribile tsunami che colpì parte dell’Asia, in casi come questi si scopre che spesso sono i più poveri a dare lezione di generosità. Da un lancio dell’agenzia AsiaNews, ad esempio, apprendiamo che alcune ex "donne di conforto" della Corea del Sud (che, durante l’occupazione giapponese, furono sfruttate sessualmente) hanno deciso di destinare parte dei loro risparmi a un’ong buddista che aiuta i terremotati del Nepal. L’obiettivo dell’iniziativa dei nostri vescovi è quello di rispondere concretamente all’emergenza inviando un sostegno economico. Ma,visto che – come ama ripeterci papa Francesco – la Chiesa non è un’ong, l’invito è a vivere questo gesto in spirito di autentica solidarietà cristiana. Siamo chiamati a un segno di condivisione con i poveri dall’altra parte del mondo: non chiederemo loro di che etnia o religione sono, perché già sappiamo l’essenziale. Sono figli dell’unico Dio. E questo ci dovrebbe bastare, per farci allargare il cuore.
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