lunedì 11 marzo 2013
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​«Abbiamo ucciso i cristiani». L’agghiacciante annuncio, retaggio di un odio intollerante che si vorrebbe sepolto nei secoli, è corso ieri pomeriggio sul moderno e tecnologico sito Internet dell’organizzazione terroristica nigeriana Ansaru. Un’esile speranza rimane, mentre scriviamo, che non sia confermata la notizia dell’omicidio dell’ingegnere italiano Silvano Trevisan e dei suoi colleghi libanesi, inglese, greco e filippino dell’azienda di costruzioni per cui lavorano. Ma la spietatezza dei fondamentalisti islamici del Paese africano e le voci di un fallito blitz delle forze speciali locali e britanniche fanno temere il peggio.Nelle stesse ore, su un quadrante diverso e lontano, eppure simile per la precaria coesistenza fra religioni e la difficile condizione dei cristiani, spesso vittime di discriminazioni e violenze, si registrava l’ennesima, drammatica e sconfortante replica di un copione già visto decine e decine di volte. A Lahore, in Pakistan, gruppi di facinorosi e settari prima accusavano strumentalmente di blasfemia un fedele di una Chiesa evangelica e poi scatenavano un raid contro la piccola comunità di Joseph Colony, dove sono state date alle fiamme centinaia di abitazioni costringendo alla fuga le famiglie residenti e provocando almeno decine di gravi feriti.Minoranze, si dirà. Da una parte, una cellula fondamentalista collegata al gruppo Boko Haram. Dall’altra, pochi agitatori che riescono a mobilitare le teste più calde in azioni sporadiche, sebbene frequenti a livello nazionale. Eppure, sono queste minoranze che agiscono in negativo quelle che riescono a "inquinare i pozzi", a distruggere la convivenza pacifica, a incendiare gli animi e ad avviare i conflitti, oppure a costringere pacifiche comunità verso dolorose diaspore. La storia di molti Paesi dell’Oriente vicino o lontano narra proprio di situazioni simili, in cui la sottovalutazione (colpevole o solo negligente) se non la transigenza verso ridotti falangi del sentimento anti-cristiano hanno condotto a grandi tragedie e a sradicamenti definitivi.La lezione da trarre è che non ci si può accontentare di maggioranze silenziose più o meno accoglienti; bisogna chiudere subito ogni spazio al radicalismo e all’intimidazione. Lo dice la situazione nigeriana, nella quale le lotte di potere e per il controllo delle grandi riserve energetiche hanno strumentalmente usato le spinte integraliste, o lasciato loro campo. Lo dice il caso del Pakistan, dove le norme ambigue sulla blasfemia servono a consumare vendette sotto una patina di legalità, lasciando uno "sfogo" alle istanze musulmane estremistiche.Governi e società che non sanno riconoscere subito i germi dell’avversione a chi professa un’altra fede, che non hanno la volontà o la capacità di contrastare le minoranze rumorose o, peggio, aggressive non possono poi chiamarsi fuori dalla responsabilità per ciò che accade nei propri Paesi.Anche la comunità internazionale non può, con leggerezza, liquidare azioni gravi come «episodi isolati» e rimanere inerte davanti alle persecuzioni. Vicende come quelle di Asia Bibi, che i lettori di Avvenire ben conoscono, non sono soltanto esacrabili in sé, ma costituiscono anche il segnale mai da sottovalutare di una possibile involuzione della democrazia, con un’eclissi dei diritti fondamentali, quelli delle libertà di coscienza e di religione.In questa tenaglia è finito stritolato, perché «occidentale» e quindi «cristiano», pure un nostro connazionale. Forse dovremmo riflettere di più sull’accostamento di aggettivi. E non per evitare, come vorrebbero molti, un’identificazione automatica. Ma per capire che rinunciare a difendere i «cristiani» significa, qui sì in modo automatico, abdicare ai valori e alle conquiste di civiltà di noi «occidentali».
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