sabato 19 settembre 2015
​La logica delle Beatitudini si rivela nelle prove e nelle imprese
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Le beatitudini non sono virtù, non sono un discorso etico sulle azioni umane. Sono invece il riconoscimento che nel mondo "esistono già" i poveri, i miti, i puri di cuore, chi piange, i perseguitati per giustizia, i misericordiosi. E li chiamano "felici". Le beatitudini sono soprattutto una rivelazione, un togliere il velo per vedere una realtà più profonda e vera di quella che ci appare. Il vangelo non ci presenta un’etica delle virtù (questa c’era già), ma ci dona e ci rivela l’umanesimo delle beatitudini (che non c’è ancora, e quindi può sempre arrivare). Se capissimo e vivessimo la logica delle beatitudini, dovremmo andare per le strade, nelle piazze, nelle imprese, nei campi di accoglienza, guardarci attorno e ripetere con e come Gesù di Nazareth: «Beati, beati …». Ci sono troppi puri di cuore, perseguitati per la giustizia, poveri, miti, che attendono ancora di sentirsi chiamare beati. Non sappiamo di essere beati finché qualcuno non ci vede, ci riconosce e ci chiama con questo splendido nome. Mosè quando scese dal Sinai con le nuove tavole della Legge non sapeva che il suo volto era diventato raggiante (Esodo 34,29). Fu il suo popolo a rivelargli la presenza di quella luce speciale. La luce sul volto e ogni felicità appaiono dentro un rapporto. Iniziamo a scoprire di essere felici dentro le povertà, nelle persecuzioni, durante i pianti nostri e degli altri, perché qualcuno che ci ama ce lo dice, ce lo ricorda. Le beatitudini più importanti sono quelle degli altri. E le nostre si risvegliano solo quando sono chiamate per nome. La mitezza esiste, la incontriamo tutti i giorni, ci fa vivere, e grazie ad essa facciamo vivere chi è attorno a noi. I miti si riconoscono prima di tutto dalla tenerezza, hanno la stessa radice. Mansueto, mite, tenero. I mansueti sviluppano una amicizia particolare con le "mani" - la parola latina rimanda alla docilità con la quale gli agnelli si lasciano passare sul dorso la mano del loro pastore. Questa tenerezza è l’opposto di quella romantica e sdolcinata che inonda i talk show e gli spot pubblicitari. I miti conoscono il canto spirituale sublime delle mani. Innanzitutto sono docili all’azione della mano che li lavora, sanno lasciarsi lavorare. È questa la prima dimensione della mitezza: saper stare fermi e arrendevoli, soprattutto nei giorni quando la mano della vita si fa sentire più intensamente. Per riconoscere i miti occorre allora osservarli nei momenti della malattia, durante le prove e, soprattutto, nell’incontro con la morte. La mitezza è aiuto fondamentale durante gli abbandoni, i lutti, i deserti interiori ed esteriori, quando dobbiamo, come l’agnello, disporci docili per lasciare che la mano del pastore faccia il suo mestiere. E noi il nostro: la mitezza è l’opposto della passività. È un lavoro continuo, tenace e perseverante. La mitezza è anche la beatitudine dei poveri che riescono a stare e vivere in condizioni impossibili per i non-mansueti. La mitezza la incontriamo molto spesso tra gli anziani e i vecchi. La mitezza del cuore assomiglia alla morbidezza del frutto maturo, che compie il suo disegno diventando cibo per gli altri, cadendo e nutrendo la terra. Gli occhi più miti che ho incontrato sono stati occhi di vecchi e ancor più di vecchie. Soltanto questi occhi hanno i colori splendidi e luminosi dell’ultimo autunno. Non è raro che una persona riveli tutta la sua mitezza nascosta (anche a lei stessa) nell’ultima fase della vita, negli ultimi giorni, nell’ultima ora. Quando riesce stare docile sotto le mani di infermieri e medici, girata e rigirata nel letto, mansueta alla mano che passa durante la veglia nelle ultime notti infinite. O quando riusciamo, per un dono imprevisto, a scorgere la mano dell’angelo della morte e a riconoscerla come la mano buona e amica del pastore, e così lasciarsi abbracciare e accarezzare da essa nell’ultimo abbraccio-danza della vita. Allora la prima terra che il mite eredita è quel piccolo fazzoletto che lo accoglie benigna e sorella quando alla fine torna a casa. Come Abramo, che seguì docilmente la voce che lo chiamava verso una terra promessa, e che morì esule e straniero, possedendo soltanto la terra per la tomba comprata dagli ittiti per seppellire sua moglie Sara. Ma il mite, avvezzo all’azione delle mani degli altri, usa anche le proprie mani per abbracciare, per curare, per accogliere un amico, per fare casa a un pentimento. I miti abbracciano, stringono, piangono insieme, e sanno che non si conosce qualcuno senza averlo stretto al petto, senza avergli baciato le guance nel bacio della pace. Conoscono e usano il linguaggio umile e forte del corpo, la lingua delle carezze, sono maestri della tenerezza e dell’intelligenza delle mani. Tutti siamo capaci di accarezzare i nostri bambini, e tutti sappiamo accarezzare chi amiamo. Queste carezze sono parte del repertorio di base degli esseri umani - e di altri primati superiori. Ma solo i miti sanno e possono accarezzare chiunque: bambini e adulti, famigliari e sconosciuti (solo i miti dovrebbero accarezzare i bambini degli altri). E così con l’esercizio delle mani curano quelle ferite di solitudini e di abbandoni che guariscono solo quando sentono passare sulla pelle, leggera, una mano amica. Se non ci fosse la moltitudine di miti che abitano ospedali, reparti pediatrici, scuole, centri di accoglienza, cooperative sociali, e agiscono da volontari delle carceri, nelle stazioni e lungo le strade di notte, la vita in questi luoghi sarebbe impossibile, o troppo dolorosa. Beati i miti, beati chi li incontra ed è da loro accarezzato e amato. I mansueti, poi, sono necessari per disinnescare i conflitti e ricostruire concordia e pace, ovunque. Se nello sviluppo di un conflitto (tra fratelli per un’eredità, tra colleghi, tra soci, dentro una comunità) non interviene l’azione di almeno un mansueto, le uniche soluzioni diventano quelle dei tribunali - che non sono mai soluzioni vere nei rapporti primari della nostra vita: è l’abbraccio dei corpi e delle mani l’unica vera risoluzione di conflitti tra fratelli e amici. I miti tutto coprono, tutto sopportano. Ai miti è promessa la terra, è questa la loro eredità. Ma la terra nell’umanesimo biblico appartiene a Dio: «Mia è tutta la terra» (19,5). È dentro questo orizzonte che va letta allora questa beatitudine (e tutte le altre). Noi siamo soltanto possessori temporanei e passeggeri di una terra che non è nostra. La prima legge della terra è la gratuità, tutta la terra e tutte le terre sono prima beni comuni e dopo beni usati con responsabilità e custodia per il nostro benessere (shalom). Allora il mite possiede ogni terra non possedendola; e quindi la condivide. La sente come eredità gratuitamente ricevuta, non come merce acquistata nei mercati; e come tale la vorrà lasciare ai propri figli. Apre le porte della sua casa perché sa che è veramente anche degli altri, di tutti. E quando la sua casa si riempie di non-familiari non si sente un eroe né un altruista, ma soltanto qualcuno che sta possedendo una terra ricevuta in dono ed eredità, anche quando l’ha comprata con i salari duri del lavoro emigrante, con i risparmi di una intera vita. Ogni nostra proprietà è seconda, perché tutta la terra è di YHWH, e quindi non è di nessuno o di tutti. La terra è sempre terra promessa, sta oltre un Giordano che contempliamo ma non attraversiamo. E se ai miti è promessa la terra, allora la terra promessa è la terra dei miti. Ogni terra abitata dai miti diventa già terra promessa. Anche la terra della nostra città, del nostro quartiere, della mia casa diventa terra promessa se c’è in essa almeno un mite. Ma il mansueto vive anche la propria vita come "terra ereditata". Nel corso dell’esistenza, arriva quasi sempre un momento decisivo quando capiamo, ognuno a modo suo, che la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare. L’albero che è fiorito dai semi della giovinezza non è quello che pensavamo né volevamo. Il mite trova la sua felicità-beatitudine accogliendo con docilità la vita che si trova a vivere, perché capisce che per lui, per lei, non c’è un albero migliore cresciuto al di fuori di quella sua terra. Nessun albero assomiglia al seme, nessuna vita adulta buona coincide con le speranze della giovinezza - e se coincide non è buona. Questa mitezza è il contrario della rassegnazione, perché mentre il rassegnato di fronte alla delusione dell’adultità diventa triste, incattivito e spento, il mite è felice e riconciliato. Sono molti, miriadi, i miti che trovano una loro felicità in famiglie, comunità religiose, che si sono rivelate nel tempo diverse da quelle scelte e sognate, a volte molto diverse, troppo diverse per i non-miti. I mansueti riescono a fiorire dentro scenari che non erano in programma nel giorno delle nozze o dell’ordinazione religiosa, ma che una volta arrivati li hanno abbracciati con la stessa tenerezza con la quale hanno abbracciato il primo giorno la sposa. Gli abbracci dei miti sono tutti uguali. Non possiamo controllare tutti gli eventi, dentro e fuori di noi, dai quali dipende la nostra felicità. Le cose più grandi della vita non le scegliamo. Sono "eredità", che non compriamo né meritiamo. Possiamo rifiutarle e fuggire via in cerca di una terra solo e tutta nostra. Il mansueto invece le accoglie in pienezza, senza beneficio d’inventario. Le fa entrare dentro la sua casa e apparecchia la tavola con la tovaglia più bella. E un giorno, sorprendendosi, riesce a far festa, ritrovandosi finalmente adulto e "maturo". Ci sono poche gioie più grandi di quelle che fioriscono dalle feste celebrate insieme alle nostre delusioni. I miti conoscono questa festa, assaporano questa gioia matura, e sono beati. «Beati i miti, possiederanno la terra». l.bruni@lumsa.it
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