sabato 10 ottobre 2015
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La felicità promessa dalle beatitudini non è quella promossa e promessa dalla nostra cultura. Quella delle beatitudini ha poco a che fare col piacere, non è il buon " (eu) demone (daimon), fiorisce dal dolore. Possiamo ottenere anche piacere dalle cose della vita se la ricerca del piacere non diventa l’unica cosa della vita. Perché confondendo la felicità col piacere finiamo per non avere né l’una né l’altro. Le beatitudini sono una "forma di vita", sono un altro già. Sono una proposta concreta e un giudizio sulla nostra giustizia e ingiustizia, sugli abbracci e sui muri, sulle nostre indifferenze e sulle nostre consolazioni. Chi crede alla verità delle beatitudini entra nel mondo concretissimo di chi vede poveri, miti, puri, e li chiama beati. E poi desidera di abitare nel loro Regno. La beatitudine degli afflitti, la felicità di coloro che piangono, sembra la più paradossale, quella dell’ultimo giorno, non quella dei nostri giorni penultimi. Quale felicità ci può essere dentro un pianto? Il pianto biblico non sono le lacrime di gioia, né quelle false e prodotte a scopo di lucro nei talk show televisivi. Sono le lacrime degli afflitti, il pianto disperato dei lutti, quello delle separazioni, dei fallimenti, quelle versate per i figli che sbagliano e non tornano a casa, quelle che cadono quando non riusciamo ad impedire a un fratello o a un amico di buttar via la propria vita. Quelle delle guerre, dei troppi poveri schiacciati e degli oppressi, quelle di chi perde il lavoro, quelle dei tradimenti. Ma sono anche quelle dei pentimenti e dei perdoni, quelle del dolore per le conversioni nostre e degli altri. Quelle delle beatitudine sono tutte lacrime molto serie. Nella Bibbia si incontra spesso l’esperienza del pianto. Piangono anche i patriarchi, i re, Giobbe. Gesù piange per l’amico morto, per Gerusalemme, e forse quel suo ultimo grido di abbandono fu anche un grido di pianto. I salmi sono pieni di lacrime feconde. Le lacrime sono il primo linguaggio degli umani. Possiamo parlare lingue diversissime, credere in Dei diversi, avere costumi e culture molti distanti tra di loro; tutti però capiamo il linguaggio del pianto, tutti sappiamo decifrarlo immediatamente. Gli uomini, le donne, i popoli hanno iniziato a conoscersi piangendo nei lavori dei migranti, quando John non capiva la lingua di Sergej ma poteva consolarlo quando piangeva, guardando la foto sgualcita dei figli e della sposa lontani. Lapo non capiva quasi nulla delle parole di Carmelo, ma le lacrime che cadevano a entrambi nella trincea dialogavano e si capivano perfettamente. Non tutti siamo perseguitati per la giustizia, non tutti siamo miti, ma tutti piangiamo. La beatitudine di chi piange è promessa universale, che raggiunge ogni essere umano nella sua condizione più essenziale, radicale, feriale, nuda. E vale per tutti gli esseri umani: donne, uomini, vecchi, bambini e bambine. Chiamando beati gli afflitti Gesù ha reso beati tutti gli uomini e tutte le donne della storia e della terra. Entriamo nel mondo piangendo, e il pianto muto è spesso la nostra ultima parola prima di lasciarlo. Come ci insegna Giobbe, c’è anche un pianto degli animali, degli alberi, della terra, dei vermi. Nel mondo ci sono più lacrime di quelle degli umani. Esiste una sofferenza della natura, un’attesa dolorosa di una consolazione, un grido della creazione. Quando riusciamo a sentirne qualche sua eco, accediamo a una dimensione più profonda della vita, scopriamo una fraternità cosmica, con Francesco – ieri e oggi – cantiamo un altro "Laudato si’". E ci nasce il bisogno di vedere arrivare la consolazione per gli esseri umani, ma anche per la terra umiliata e offesa, per gli animali non rispettati e schiacciati, per le specie viventi che ogni giorno muoiono. Sentiamo che "deve" esserci una consolazione delle lacrime del mondo, che "deve" arrivare un consolatore, un riscattatore, un Goel. Si diventa pienamente umani quando iniziamo a soffrire per il non-avvento di queste consolazioni – una sofferenza che una volta iniziata non ha mai fine e cresce con noi. La beatitudine che si trova dentro il pianto si chiama "consolazione": «Saranno consolati». La parola greca che noi traduciamo con "consolazione" è "parakaleo", che indica la figura di chi sta vicino alla vittima, come un avvocato, per difenderla dal suo accusatore. La beatitudine consiste allora nel fare l’"esperienza" dell’arrivo di una consolazione. Scoprire una presenza reale che ci consola mentre piangiamo. E con la consolazione smettiamo di piangere, o piangiamo diversamente. In questa beatitudine, diversamente dalle altre, la felicità sta nel cambiamento della condizione che genera la beatitudine. I miti, i misericordiosi, i costruttori di pace, i poveri, i perseguitati e assetati per la giustizia, restano in quella loro condizione quando la promessa si compie. Non si smette di essere poveri perché siamo nel Regno dei cieli, di esseri misericordiosi quando incontriamo misericordia, di costruire la pace quando un giorno ci sentiamo chiamare «figli di Dio». Quando invece dentro il nostro pianto e la nostra disperazione ci raggiunge la consolazione, il pianto di riduce, cambia tono, le lacrime iniziano a essere asciugate. Tutti conosciamo le beatitudini dentro le lacrime. Sono iscritte nel Dna morale degli esseri umani. Il giogo della vita sarebbe insopportabile se dentro le lacrime non trovassimo anche una consolazione. Una prima consolazione la incontriamo nell’esperienza di poter piangere. La sofferenza inconsolabile è quella che non riesce più (o ancora) a piangere. Molti pentimenti, ad esempio, iniziano con un profondo e irrefrenabile pianto. Un pianto diverso, che solo quando arriva possiamo conoscerlo nel suo dolore e nella sua beatitudine tipici. Quando arriva il momento del pentimento e del "tornare a casa", il primo moto è quasi sempre un pianto a dirotto – ognuno a modo suo, pianti tutti simili e tutti diversi. È un pianto beato, l’inizio della vita nuova. "Mentre" si piange ci si sente chiamare beati: «Erano lacrime di felicità nate dal risveglio dell’essere morale sopito in lui da molti anni» (Lev Tolstoi, "Resurrezione"). Prima di "alzarsi" per "tornare" da suo padre, il figliol prodigo avrà iniziato il suo ritorno con un grande pianto. Dentro l’inferno si apre uno squarcio di paradiso, e la possibilità di poterlo finalmente raggiungerlo è già paradiso. La strada verso casa è già casa. Queste lacrime sono tutte e solo beatitudine, rigenerazione. Dolorosissime e salvifiche, tremende e meravigliose assieme. Afflitti e beati. Questo pianto diventa un mezzo di scoperta e di conoscenza delle dimensioni più profonde della vita. Se vuoi conoscere qualcuno veramente, incontralo e ascoltalo mentre piange per un pentimento, per un perdono, per una conversione. I grandi perdoni, soprattutto quelli tra fratelli e tra amici, si compiono piangendo insieme in abbracci infiniti e senza tempo: «Allora Giuseppe disse ai fratelli: "Avvicinatevi a me!". Si avvicinarono e disse loro: "Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto" … Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse» (Genesi 45, 4-15). C’è poi un’altra forma di consolazione-beatitudine. È quella che nasce dal poter piangere insieme a qualcuno che accompagna il nostro dolore. Com-piangere, con-patire, è una forma speciale di felicità. Condividere il dolore e mischiare le lacrime con un amico è per molti la sola felicità dentro vite dove il dolore e le lacrime sono l’unico "pane". In queste afflizioni la consolazione arriva con il volto concreto di un amico che si china sul nostro dolore. Se ci sono troppe afflizioni non beate è anche perché mancano i consolatori, amici capaci di piangere con noi. Nei pianti senza consolazioni che abbondano attorno a noi ci sono troppe latitanze di consolatori. Tante lacrime potrebbero essere consolate e asciugate, depressioni accompagnate, solitudini riempite, se ci vedessimo nel ruolo di consolatori e non in quello di chi è in attesa di consolazione. Sono io che manco nel troppo dolore inconsolato del mondo. Ogni beatitudine è anche un invito rivolto direttamente a noi, a te, a me. La prima terra promessa è quella della mia casa che condivido con chi non ce l’ha, la prima consolazione del pianto dell’altro è il mio pianto solidale. Una consolazione speciale e piena di mistero è poi quella della poesia, della letteratura, dell’arte. Il poeta, lo scrittore, il pittore, con la sua opera può raggiungere i disperati della terra, e nel crearli consolarli. Si fa loro prossimo, compagno di strada, e così li fa beati. Nelle storie più grandi non occorre l’"happy end", il lieto fine, perché la disperazione vista e "toccata" dall’artista è già felicità. L’arte ci dona anche queste beatitudini. Ma c’è ancora un’altra consolazione degli afflitti. È quella che arriva come un "angelo". Qui non c’è un amico che ci consola. È il "paraclito", che arriva come "padre dei poveri". È splendido che nella Bibbia il primo angelo arriva sulla terra per consolare Agar, una schiava cacciata via nel deserto dalla sua padrona. La prima teofania e la prima annunciazione sono per lei (Genesi 16). Le annunciazioni, le teofanie, la salvezza di un bambino, accadono spesso al culmine delle grandi afflizioni, quando un angelo ci raggiunge dove nessuno ci poteva più raggiungere, e ci consola. È la consolazione dello spirito, il paraclito consolatore, che ci risorge mentre moriamo sulle croci. È il consolatore perfetto, che riscalda, raddrizza, bagna. Se riusciamo ad alzarci ogni mattina quando la notte prima pensavamo di non farcela più, è perché il paraclito è all’opera, e bacia la ferita delle nostre anime mentre ancora dormiamo e sogniamo, e le cura. Non tutti sappiamo, o vogliamo, fare esperienza di Dio. Ma moltissimi, forse tutti, abbiamo incontrato nella vita almeno una volta questo spirito consolatore, o lo incontreremo in un pianto futuro. È una promessa. «Beati coloro che sono nel pianto, saranno consolati». l.bruni@lumsa.it
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