sabato 12 dicembre 2015
La gioia s'impara e reimpara vivendo la vita abbiamo
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«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare una pianta. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per rompere e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per il lutto e un tempo per le danze. Un tempo in cui scagli pietre e un tempo in cui le accatasti. Un tempo per abbracciare e un tempo per ritrarsi dagli abbracci. Un tempo per cercarsi e un tempo per lasciarsi. Un tempo per tenere e un tempo per buttare. Un tempo per strappare e un tempo per ricucire. Un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare. Un tempo per la guerra e un tempo per la pace». (Qohelet 3,1-8). E qui dovremmo fermarci, davanti a tanta forza e bellezza che ci raggiungono come brezza dopo aver attraversato con Qohelet il doloroso territorio dell’"hebel", della "vanitas". Siamo arrivati al cuore del libro di Qohelet, e a una delle pagine più belle della Bibbia. Anche se la parola tempo inteso come "tempo" favorevole – in ebraico "’et": punto, ora, "momentum", "kairos" – domina questo breve poema, quella di Qohelet "non" è una riflessione filosofica sul tempo. Non parla ai filosofi greci del suo mondo. Il suo orizzonte è quello biblico e sapienziale. Continuando la sua ricerca Qohelet ora scopre che "sotto il sole" esiste un ordine, una legge impressa dal Creatore nella natura e nelle azioni umane. Viaggiando nell’oceano della vanità, giunge finalmente a una terra ferma. Il fumo si arresta di fronte allo spettacolo del ritmo della vita e dell’agire umano. Questo ordine gli appare, finalmente, non-vanità. Quando nelle culture antiche un saggio osservava il ritmo della vita e delle sue stagioni, le vicende umane, le leggi dei mestieri, le cause delle sofferenze e delle gioie, sentiva la presenza di una sapienza sotto le cose. Vedeva azioni produrre cattivi frutti perché iniziate nel momento sbagliato, le nascite e le morti seguire un qualche comando intrinseco e non arbitrario. Restava incantato da come ogni cosa avesse il proprio posto, ammaliato dalla razionalità della vita, catturato dal senso – significato e direzione – delle opere e dei giorni. La legge della vita esiste, e l’armonia della sinfonia della terra si può udire solo sintonizzandosi con i suoi tempi giusti. Giunto in fondo alla sua delusione per la mancanza di un senso vero nelle fatiche sotto il sole, il cantico di Qohelet conosce qui una prima svolta. Quell’antico sapiente guarda la terra e il susseguirsi delle azioni umane e vi scopre una verità. Le sente anche buone e belle: «Che profitto ottiene chi si dà da fare con fatica? Ho considerato il compito che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo» (3,9-11). Tutto ha fatto bello "nel suo momento", nella sua ora. Le nostre azioni hanno un punto di bellezza, una stagione nella quale risplendono. Per scoprirlo dobbiamo guardarle nella loro ora, nel loro momento. Quando le cose ci appaiono brutte e non buone forse siamo semplicemente fuori tempo: mangiamo un frutto acerbo, valutiamo un processo ancora in corso, non sappiamo attendere che una vocazione giunga a compimento, ci fermiamo al venerdì santo. Vediamo un albero sfiorito nel suo autunno senza attendere la primavera. Al termine del suo poema del tempo, Qohelet, alla domanda: "quale profitto ("yitron") per le fatiche umane", per la prima volta non risponde "vanitas", fumo, e ci fa intravvedere una prospettiva diversa, un guadagno maggiore di zero, uno scarto positivo tra ricavi e costi dell’affaticarsi sotto il sole. I tempi di cui parla Qohelet nel suo poema sono, infatti, tempi "umani", sono i momenti della vita e del lavoro ("amal"), il ritmo normale degli "affari" ordinari sotto il sole. Non ci sta parlando dei tempi dei fiumi, degli accoppiamenti degli animali e delle migrazioni degli uccelli. Qui le cose belle sono cose umane: nascere, morire, ammassare pietre, piangere, costruire, ricucire, la pace. Questa fatica è buona: è il travaglio del nascere e del morire, è la fatica buona del lavoro umano. Non sempre nascere, morire, piangere, lavorare è bello: "lo è nel loro momento". Ci sono persone che, come i patriarchi, muoiono "sazi di giorni", e ci sono morti che arrivano nel momento sbagliato e non sono belle. Il lavoro è bello se svolto nel tempo opportuno. Ma c’è anche il lavoro degli schiavi e dei servi, antichi e moderni, il lavoro che non conosce il suo momento propizio perché il tempo di lavoro diventa il tempo della vita. E così non genera "profitto" sapiente. Ci sono persone che diventano bellissime se colte nel momento giusto del loro lavoro, e altre distrutte da un tempo di lavoro sbagliato, o da un tempo del lavoro che non arriva mai o che è passato troppo presto e non più tornato. Se vuoi conoscere veramente una persona devi vederla mentre lavora nel suo tempo. E quando qualcuno non è messo nelle condizioni di poter lavorare nel momento buono, gli si impedisce di esprimere la sua bellezza. Ci priviamo di troppa bellezza lasciando i giovani fuori dalle imprese, non facendo loro incontrare il lavoro nel "tempo opportuno". E se la giovinezza è il tempo propizio del lavoro, forse il lavoro di chi lo inizia troppo tardi non diventerà bello come avrebbe potuto. Ed è a questo punto che Qohelet inserisce una delle frasi più misteriose, grandi e discusse del suo libro: «Nel cuore umano Elohim ha posto anche il mistero del tempo ("olam"), ma il fare di Dio è sbarrato per l’uomo dal principio alla fine» (3,11). Qohelet ci dà qui la chiave di lettura delle "vanitas" che ci ha finora svelato. Nella sua antropo-teologia, Elohim-Dio ha messo nel mondo princìpi in tensione tra di loro. Ha posto dentro l’Adam-uomo l’"olam", una parola ebraica misteriosa e polisemica, che nei secoli è stata tradotta in molti modi. L’"olam" ha a che fare con il desiderio racchiuso nel nostro cuore di voler possedere "il tutto del mondo". È l’"olam" la prima molla della religione, della scienza, della filosofia. Vediamo il fiore sbocciare e vorremmo conoscerne tutto il suo mistero: non ci basta il "molteplice" spiegatoci dalle singole scienze (chimica, botanica). Sentiamo forte il fascino dell’"uno", vorremmo possedere l’interezza di quel sbocciare. Qohelet ci dice che l’intero dei tempi e dei momenti ci è sbarrato. L’Adam non ha il possesso dei tempi del suo mondo, non ha il controllo del ritmo della vita. La "non-vanitas" sta nel riconoscerlo. Nella cultura del suo tempo, di fronte a questo sbarramento, forte era la tentazione dei riti misterici, della magia, degli oroscopi. I maghi e gli aruspici hanno sempre promesso di soddisfare tutte le esigenze dell’"olam" e introdurci nel mistero dei tempi della vita. E così poter controllare il nostro nascere e il morire, l’amore e l’odio, il piangere e la felicità. Oggi insieme ai maghi e agli aruspici, che continuano ad avere grande e crescente mercato, è la tecnica che promette di eliminare tutte le barriere per soddisfare il nostro "olam", consegnandoci la legge delle nascite e della morte, i tempi e le anime dei lavoratori. Anche a questa tecnica Qohelet dice: "hebel", fumo, fame di vento. Qohelet combatte anche queste false soluzioni, e ci presenta una via inattesa per risolvere il conflitto tra il desiderio dell’uno e la sola possibilità reale del frammento: «Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e gioisca del suo lavoro, "anche questo è dono di Elohim"» (3,12-13). Qui Qohelet sembra negare quanto affermato poco prima, quando aveva definito vanità la ricerca della felicità nel vino, nei piaceri dei sensi e nella ricchezza (cap. 2). In realtà la sapienza di Qohelet continua a sorprenderci. Quando accoglie la verità del non-possesso del mistero del mondo, quando capisce nel dolore che non è il padrone delle cose la cui vita lo affascina e seduce e che non può mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’Adam può voltarsi, vedere diversamente le cose e scoprire lo scorrere della vita. E sentirla come dono vero. La morte si può vincere soltanto vivendo la vita che abbiamo. Dopo aver sofferto per anni, decenni, per non riuscire a dominare la realtà sotto e sopra il sole, può accadere che un giorno torniamo nel nostro tavolo di lavoro, apriamo il pc, ci mettiamo a rifare il lavoro di sempre, e sentiamo che la vita vera che cercavamo nel posto sbagliato era semplicemente lì, ad attenderci per salvarci. In quel frammento c’era tutto il possibile, ma non lo potevamo imparare senza dolore. Dopo aver assaggiato le ghiande, sentito l’arsura di una ricerca spirituale insoddisfatta perché non-soddisfabile, un frusto di pane può avere il sapore buono del paradiso. Quando siamo stati capaci di continuare a camminare mentre evaporavano le nostre ideologie di ieri, dopo aver rinunciato per sempre alle consolazioni non vere, può arrivare all’improvviso una nuova gioia di vivere. È la gioia dopo l’esperienza della vanità, tutta diversa dalla gioia della prima stagione delle illusioni. A gioire si può reimparare. Dal corpo a corpo con gli angeli della giovinezza possono fiorire nuovi cibi, abbracci, lavori. Un nome nuovo. È questo il grande miracolo che continua ad accadere tutti i giorni sotto il sole. l.bruni@lumsa.it
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