sabato 1 ottobre 2016
Minuscolo dio è il successo
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Sì, davvero, solo i sassi potevano vivere senza questa spinta interiore. Tutto il resto, tutto il vivente, non poteva esistere altro che sotto il segno della Speranza
Susanna Tamaro, La tigre e l'acrobata
 
Il mutuo vantaggio è la regola d’oro dell’economia e di molta vita civile. La ricchezza economica, etica e sociale delle nazioni cresce se le persone generano sempre nuovi rapporti per soddisfare gli uni i bisogni degli altri. Ci sono, però, ambiti e momenti della vita che restano buoni se e fino a quando non soddisfano i nostri gusti né i nostri bisogni, perché se lo fanno ci accontentano ma non ci fanno né felici né bene. Quando, ad esempio, in alcuni momenti cruciali non diciamo agli altri le cose che ci chiedono e le parole che vogliono sentirsi dire, perché dobbiamo donare loro cose e parole che non li accontentano; o quando riusciamo a resistere nello "scarto" tra le cose che chiediamo ai profeti non falsi e le parole diverse che essi ci donano scomodandoci e lasciandoci insoddisfatti, senza rivolgerci al fiorente mercato dei falsi profeti dove troviamo tutto ed esattamente quanto chiediamo, ma niente di più. Giunti al centro del libro di Isaia, ci accorgiamo che il profeta non si è abituato alla non efficacia della parola che annuncia. Nel giorno della sua vocazione (capitolo 6) YHWH gli aveva detto che i capi del popolo non lo avrebbero ascoltato, ma lui continua a non rassegnarsi di fronte a questa impotenza. Non si resta profeti a lungo senza trovare una spiegazione convincente della non efficacia della propria missione. Un profeta onesto deve cercare una interpretazione del perché molta gente, posta di fronte alla parola, non crede, senza accontentarsi e consolarsi con la fede del resto credente.
 
Isaia è grandissimo perché tenta la spiegazione più potente e radicale: «YHWH ha versato su di voi uno spirito di sonno profondo, e ha chiuso i vostri occhi, ha velato le vostre teste. E così la rivelazione è diventata per voi come le parole di un libro sigillato» (Isaia 29, 10-11). Per Isaia è Dio stesso a otturare le orecchie, a tappare gli occhi, a indurire il cuore di chi non accoglie la sua parola. Non c’è una spiegazione più potente, né una più sorprendente. Una spiegazione che ha una sua logica profonda e decisiva: se è stato YHWH a sigillare il libro della profezia, lo stesso YHWH in "quel giorno" potrà togliere il sigillo, e salvare non soltanto il resto fedele. Potrà salvare tutti, anche coloro che non hanno ascoltato e non ascoltano. Il "resto" mantiene viva la promessa, la speranza, la fede, l’alleanza. Ma c’è un’anima dell’umanesimo biblico che dice anche un’altra fondamentale cosa: la salvezza, se è vera, non può essere soltanto per il resto: deve essere per tutti. Non c’è felicità piena finché ci salviamo dentro un mondo che si perde, finché al di sotto del nostro paradiso c’è un inferno non ancora svuotato. Le felicità più alte e più vere o sono di tutti o non sono di nessuno: «In quel giorno i sordi udranno le parole del libro, e liberati dall’oscurità della notte, gli occhi dei ciechi vedranno. Allora gli umili si rallegreranno nel Signore, e i più poveri tra gli uomini esulteranno. Perché il tiranno non c’è più, il derisore ha cessato di schernire» (29, 17-20).
Il "resto", allora, non è una élite, non è un club di predestinati, non è un’oasi di salvati in un oceano di perdizione eterna. È semplicemente sale e lievito, che quindi hanno senso solo se diventano il pane di tutti e per tutti. Il resto "torna a casa" come caparra del ritorno di chi non è ancora tornato. Il resto che torna non è chi condivide già la mensa del padre, ma il figlio che ancora mangia le ghiande dei porci. È la salvezza universale la vocazione della terra, l’attesa del ritorno di tutti gli assenti dal banchetto dei figli. Ci vuole molto coraggio etico e teologico per fare di Dio il responsabile della non-fede del mondo – i profeti vengono, e continuano a tornare e a ritornare, anche per dirci e darci questo coraggio. Le salvezze sono sempre lontane perché i "resti" si trasformano troppo spesso in club privati di privilegiati che invece di sentirsi sale e lievito nella terra di tutti, si contrappongono alla massa e, non di rado, la maledicono. Nessun lievito buono odia la massa. In questi "snaturamenti dei resti" un ruolo decisivo lo svolgono, ancora, i falsi profeti che, più dei capi, sono i veri nemici del popolo e della fede, e quindi dei profeti veri. Isaia è spietato con la falsa profezia perché è alla base dell’idolatria più subdola, quella che nasce in seno al popolo dell’alleanza. I vitelli d’oro più pericolosi non sono quelli che arrivano dai culti stranieri di Baal, dall’Egitto, da Babilonia. Sono invece quelli fabbricati dal popolo nelle sue fucine, fondendo l’oro delle famiglie, delle spose, delle figlie, dei doni. Fino a quando gli idoli restano distinti dal Dio diverso, invisibile e indicibile, finché sono solo statue morte che adornano un tempio che continua a contenere l’assenza di YHWH (che non è un idolo perché non è imprigionato nel tempio che gli abbiamo costruito), c’è sempre la speranza di tornare a casa, la chance che almeno qualcuno si accorga che gli idoli sono stupidi e ne faccia un falò: «Profondo e largo è il rogo, fuoco e legna abbondano» (30,33).
La salvezza esce definitivamente di scena quando al vitello aureo viene dato il nome di YHWH (Esodo 32), quando cioè il Dio vero di ieri diventa l’idolo di oggi. Sono queste trasformazioni e queste manipolazioni il principale mestiere dei falsi profeti, produttori della peggiore idolatria, quella che fa di YHWH un feticcio. Questi falsi profeti non sono idolatri di idoli: sono idolatri di Dio. Continuano la sua critica sistematica all’idolatria, in questo capitolo Isaia ci dice qualcosa di nuovo e di decisivo. È ben cosciente che sta per dirci una verità prima, e quindi esclama: «Su, vieni, scrivi questo su una tavoletta davanti a loro, incidilo sopra un documento, perché resti per il futuro in testimonianza perenne» (30,8). E poi profetizza: «Essi dicono ai profeti: "Non fateci profezie sincere, diteci invece cose piacevoli: profetateci illusioni!"» (30,9-10).
Questi falsi "profeti di illusioni" sono i profeti ruffiani. Sono popolari in tutti i tempi, ma diventano moltitudini durante le crisi morali, quando l’offerta di falsa profezia risponde perfettamente alla domanda dei capi del popolo. I potenti («Essi») chiedono illusioni, e i falsi profeti producono e vendono soltanto illusioni. Questa domanda di profezia illusoria e ruffiana incontra sempre l’offerta. La offre chi si auto-proclama profeta solo per rispondere a questa domanda – come fanno quelle cooperative e imprese che nascono solo per rispondere a bandi pubblici. Ma la offre anche chi è nato profeta vero e un giorno, sedotto dal potere, inizia a cambiare il contenuto della sua profezia per confezionare parole sulla misura del committente. Diventa così profeta di palazzo, un cortigiano sempre pronto a produrre oroscopi profetici su comando, a dire soltanto le cose che i capi vogliono sentirsi dire, per ricavarne successo e denaro.
La parola ruffiana è tra le più comuni sotto il sole. Tutti la conosciamo, tanti la usiamo. È, infatti, molto più facile allineare i nostri sentimenti con quelli dei nostri colleghi, amici, capi, dicendo loro solo le parole che vogliono sentirsi dire, confermando le loro certezze, giustificando le loro prassi. Molto più difficile è invece dire parole scomode perché vere, sconfessare le bugie, smascherare le false consolazioni. È impossibile salvarsi se siamo circondati soltanto da amici e colleghi ruffiani, ed è un tesoro immenso trovare un amico anti-ruffiano e costosamente onesto con noi, anche quando ci fa male e ci ferisce.Se però a usare parole ruffiane sono i profeti, le conseguenze sono molto più gravi. Quando a essere ruffiani sono i membri di una comunità carismatica verso il fondatore o responsabile, gli artisti nei confronti dei potenti, i poeti verso i loro lettori, la vita spirituale e civile si arresta e declina velocemente, e non di rado nascono regimi e totalitarismi di ogni sorta. I profeti, i carismi, gli artisti servono la propria gente e il mondo dicendoci parole che non conoscevamo già, parole che ci amano proprio perché non sono quelle che volevamo ascoltare. La profezia, a differenza delle imprese, non deve soddisfare i bisogni dei "consumatori": è lasciandoci insoddisfatti e scomodi che ci amano. Se e quando gli ascoltatori dei profeti diventano, invece, "clienti che hanno sempre ragione", si compie una delle perversioni etiche più pericolose sotto il sole, che è alla base di molte malattie comunitarie e sociali. E YHWH torna a essere il vitello d’oro.
La profezia ruffiana è la radice di molte trasformazioni idolatriche. Invece di continuare ad annunciare un Dio diverso da noi, più alto e non manipolabile (la preghiera è l’opposto della manipolazione), questi falsi profeti rimpiccioliscono la verità per farla coincidere con la nostra falsità che diventa anche la loro. Invece di servirci indicandoci il "non ancora", schiacciano la realtà su quello che c’è "già" e/o che vogliamo sia. Nel mondo e nelle religioni ci sono stati e ci sono molti profeti, ma soprattutto ci sono innumerevoli legioni di questo tipo di falsi profeti, che raccolgono sempre un grande successo perché il successo è il solo loro obiettivo. E così succede troppo spesso che il "dio" che ci viene presentato è soltanto un idolo confezionato per soddisfare i gusti dei consumatori nel mercato religioso. E succede anche che molto, troppo ateismo, invece di essere la posizione di chi nega Dio dopo averlo conosciuto, sia soltanto la scoperta e poi il rifiuto della stupidità degli idoli prodotti da falsi profeti. Per sperare di incontrare o rincontrare Dio, almeno quello biblico, dobbiamo semplicemente metterci a fianco di Isaia, smascherare con lui i falsi profeti ruffiani dentro e attorno a noi. Poi cacciarli dal tempio, e infine sperare che "in quel giorno" la salvezza di tutti possa includere anche loro.l.bruni@lumsa.it
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