domenica 23 ottobre 2016
Via dall’insaziato idolo
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La fede biblica è liberazione. L’alleanza con YHWH è stata soprattutto la grande strada per fuggire dalla schiavitù degli imperi. Sta qui molta della portata innovativa e rivoluzionaria della Bibbia: accettare di allearsi con un Dio altissimo, invisibile, impronunciabile, tutto spirituale, è stata la via per non diventare sudditi di re e faraoni troppo visibili, materiali, pronunciabili e pronunciati. Schiavi di sovrani dal nome detto e ripetuto in ogni angolo del regno, la cui immagine era riprodotta in mille statue che disegnavano il paesaggio dei loro imperi. Riconoscere che solo YHWH è signore è stata una pedagogia straordinaria per imparare la vera laicità della politica e della vita civile e quindi riconoscere la natura idolatrica degli imperi, delle comunità, delle famiglie (dove per non trasformare i nostri figli in idoli stupidi dobbiamo rinunciare a pensarli, volerli e "crearli" a nostra immagine e somiglianza).

Il Dio biblico è distinto da Cesare perché Cesare non è Dio e non può mai diventarlo. Al massimo potrà conquistare lo status di idolo. Gli idoli sono molto meno di Dio, sono molto meno dell’uomo. L’idolatria è sempre rimpicciolimento di Dio, ma è ancor di più rimpicciolimento dell’uomo. La profezia, proteggendo YHWH dall’idolatria, ha protetto noi dal diventare immagine di feticci. Ecco perché essa è soprattutto un messaggio antropologico rivolto alla donna e all’uomo di ogni tempo: "non rimpicciolirti, non diventare copia di cose troppo meschine: tu vali molto di più". Non deve stupire, allora, che il libro di Isaia, aperto dalla critica radicale agli idoli, termini il ciclo del cosiddetto "primo Isaia" ancora con l’idolatria. Il re Ezechia fu giusto e quindi anti-idolatra: «Egli eliminò le alture e frantumò le stele, tagliò il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo... Egli ebbe fiducia in YHWH» (Secondo Libro dei Re, 18, 3-5).
Questo re giusto sta ora per affrontare la sua crisi più grande. La superpotenza assira, dopo aver occupato i vari regni della regione, si accinge a conquistare anche Gerusalemme. Il re Sanherib invia una delegazione per chiedergli la resa. I grandi ufficiali siriani parlano e toccano il cuore della fede di Israele: «Non vi inganni Ezechia dicendo: "Il Signore ci libererà! Forse gli dèi delle nazioni sono riusciti a liberare ognuno la propria terra dalla mano del re d’Assiria?"» (Isaia 36,18). Il messaggio degli ambasciatori assiri è dunque molto chiaro: il vostro Dio è come quello dei popoli che abbiamo già conquistato. È impotente come loro. La vostra fede-fiducia è vana, è solo illusioni, stupidità, scemenze. E quindi così si rivolgono ai tre funzionari di Ezechia: «Riferite a Ezechia: "Così dice il grande re, il re d’Assiria: Che razza di fede-fiducia è quella nella quale confidi?"» (36,3).
Gli assiri parlano lo stesso linguaggio religioso di Israele. Vogliono una resa volontaria, interiore, libera. Gli imperi sanno che non conquistano mai un popolo finché non gli conquistano l’anima, finché non lo convincono che la sua fede è una stupidaggine per offrirgli la propria più intelligente. Quel siniscalco del re assiro mostra anche di conoscere il nome il Dio di Israele, YHWH, e dice di parlare in suo nome (36,10). Come i falsi profeti. E come tutti i falsi profeti si dimostra subito idolatrico equiparando YHWH agli idoli. È sempre stata questa la bestemmia più grande nella Bibbia, persino peggiore di quella che pronuncia chi nega l’esistenza di Dio: chi pensa "Dio non c’è" è semplicemente "stolto" (Salmo 14), ma chi lo confonde con gli idoli è idolatra. Per questa ragione teologica profonda Ezechia non accetta il "turpe commercio" che gli assiri gli offrono, e ne smaschera la finta religiosità. Così Ezechia, ascoltato il racconto dei suoi messaggeri, si straccia le vesti, si mette il sacco, e si reca nel tempio. E prega: «Porgi, Signore, il tuo orecchio e ascolta; apri, Signore, i tuoi occhi e guarda. (...) È vero, Signore, i re d’Assiria hanno devastato le nazioni e la loro terra, hanno gettato i loro dèi nel fuoco; quelli però non erano dèi, ma solo opera di mani d’uomo, legno e pietra: perciò li hanno distrutti». (37, 17-19). La sua è una preghiera splendida, grandiosa, perfetta. Rinnova la sua fede diversa, e invita YHWH ad ascoltare, ad aprire i suoi occhi, a guardare.
A "svegliarsi". La prima preghiera nei tempi della prova è un grido per svegliare Dio. Per poter continuare ad avere fede in Dio quando non interviene, occorre credere che stia "dormendo", perché se non fa nulla e non dorme allora o non è Dio o è morto. Il "sonno di Dio" è stato molte volte la salvezza della fede di chi sperimenta l’ingiustizia nel suo silenzio.
La Bibbia ci sta allora dicendo che Dio ha bisogno del nostro grido per mostrarsi Dio. Perché l’impotenza diventi onnipotenza c’è bisogno della nostra preghiera-grido. Solo se Dio non è idolo può svegliarsi, udire, guardare, vedere, perché gli idoli sono muti, sordi, cerchi; non dormono perché sono morti da sempre. Poi Ezechia manda emissari da Isaia per ascoltare la sua parola. Il re riconosce che il suo ministero regale è insufficiente in quel momento decisivo per il suo popolo, quando «i bambini stanno per nascere ma non c’è forza per partorire» (37,3) - sono sempre splendide le immagini femminili usate nel libro di Isaia. Sa, perché è un re giusto, che è in gioco l’identità profonda del popolo (la sua fede in YHWH), e quindi deve far ricorso alla profezia, che è risorsa essenziale quando è minacciata l’anima collettiva.
Nei tempi ordinari la saggezza del buon governo può essere sufficiente per costruire fortificazioni, bonificare i campi, guidare bene l’economia e i commerci. Ma quando è in pericolo l’identità del popolo, la politica deve saper lasciare il posto alla profezia, perché sono altre le risorse e le "competenze" necessarie. Troppe crisi grandi non si superano perché i politici non hanno l’umiltà di chiedere aiuto ai profeti: perché non li cercano, non li conoscono, non li trovano, o perché, semplicemente, non ci sono più. Sono morti, sono in esilio, sono fuggiti in terre che non uccidono i profeti.
Quella volta, però, la profezia non era morta né fuggita da Gerusalemme. C’era Isaia, ed Ezechia lo sapeva, lo conosceva. Era un re giusto. E così lo manda a cercare, ascolta la sua parola, e salva il suo popolo. Isaia ripete le stesse parole che aveva detto molti anni prima a Akaz, un re ingiusto e idolatra: «Non temere», non abbiate paura. È sempre questa la prima parola dei profeti non-falsi. I falsi profeti, invece, aumentano le paure allo scopo di offrire false soluzioni. I profeti tengono per loro stessi le paure e al popolo donano pace, perché sanno che nei tempi della prova occorre dapprima ricostruire la pace dentro le anime, che in preda al timore non riescono ad ascoltare le parole di verità.
E poi aggiunge: «Così dice il Signore riguardo al re d’Assiria: "Non entrerà in questa città né vi lancerà una freccia, non l’affronterà con scudi e contro di essa non costruirà terrapieno. Ritornerà per la strada per cui è venuto; non entrerà in questa città"». (37,33-34). E così fu. Gerusalemme non fu conquistata, il popolo non fu deportato. Non sappiamo più ricostruire e narrare la sequenza e la concatenazione storica dei fatti che portarono gli assiri a rinunciare alla presa di Gerusalemme. Il Libro di Isaia e il secondo Libro dei re (capp. 18,19) ci offrono versioni diverse. Ciò che interessa al redattore finale del libro di Isaia è associare la salvezza di Gerusalemme e della nazione alla fede di Ezechia, alla parola di Isaia, e quindi a YHWH. Gli interessava raccontarci, con i dati storici a sua disposizione, lontani e parziali, un passaggio cruciale della storia di Israele, nel quale il popolo, di fronte a una crisi grande, non aveva perso la fede e si era salvato – un racconto scritto e maturato durante l’esilio babilonese, quando il popolo sperimentava il fallimento di quella fede che un giorno li aveva salvati.
In Isaia e nei profeti la fede è sempre e indissolubilmente legata alla fiducia e alla salvezza. Fede è avere fiducia che quell’Elohim che aveva parlato ai patriarchi, che aveva rivelato poi il suo nome (YHWH) a Mosè, non è un idolo, ma è vivo e quindi operante nel mondo e nella loro storia concreta, per salvarli. Nella Bibbia la salvezza è pegno della fede. La mancata conquista di Gerusalemme da parte degli Assiri è importante prima di tutto come segno che YHWH è all’opera, e che non si stanno affidando a un dio-feticcio.
Ci salviamo finché crediamo, crediamo finché siamo capaci di fidarci e di affidarci e quindi leggere la nostra salvezza come verità della nostra fede. Finché possiamo raccontare che "un giorno" siamo stati salvati per non aver creduto negli idoli, possiamo sempre sperare che "verrà un giorno" in cui un non-idolo ci libererà. L’idolatria è oggi dilagante perché si presenta come laicità, come spirito post-religioso e finalmente adulto, e così non ci accorgiamo che il "feticismo delle merci" è diventata la nuova religione di massa del nostro tempo. Un culto con milioni, miliardi di totem, perché con la scomparsa delle comunità e con il post-capitalismo gli idoli si sono personalizzati, disegnati e prodotti sui gusti del singolo consumatore, sommo e unico sacerdote in un "tempio" vuoto di persone e strapieno di oggetti.
Ogni cultura idolatrica è cultura di solo consumo, e ogni cultura di solo consumo è implicitamente idolatrica. È l’idolo il consumatore perfetto e sovrano, mai sazio di merci. In tali società, nel lavoro e nella produzione non c’è né gioia né senso: si lavora solo e sempre da schiavi, per produrre mattoni per innalzare le sfingi e le piramidi del faraone-dio. Siamo tutti scultori e forgiatori di idoli, dentro e fuori le religioni. Finché sulla terra ci sarà un idolo, avremo ancora bisogno dei profeti.
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